FREE FALL JAZZ

Tutto sommato è facile parlare di Prince: tiri fuori uno dei tanti dischi belli e via in quarta con elogi e superlativi. Una produzione multiforme e composita la sua, che tra funk, rock, soul e r&b di tanto in tanto porta a galla anche qualche legame con la musica che trattiamo su queste pagine: inevitabile, verrebbe da pensare, visto che suo padre, John L. Nelson, era un pianista jazz e, da buon classe 1915, alla guida del Prince Rogers Trio si è goduto tutta l’epoca d’oro del genere, pur senza mai riuscire a ritagliarsi un posto davvero importante, nemmeno in seconda fila.

La prima volta che il principe di Minneapolis incrocia seriamente la strada del jazz, le circostanze sono abbastanza clamorose e lo vedono in coppia nientemeno che con Miles Davis. Il pezzo si chiama ‘Can I Play With U’: dovrebbe finire su quello che diventerà il non esattamente eccelso ‘Tutu’, ma viene escluso dalla scaletta finale. È un ottimo, vigoroso electro-funk arricchito con naturalezza dalla tromba di Miles, e non avrebbe sfigurato sul di poco successivo ‘Sign O’ The Times’: a ragione, Prince lo ritiene non in linea con il blocco di pezzi preparati da Marcus Miller per il disco di Davis e chiede la sua esclusione. Vedrà la luce solo su un popolare bootleg intitolato ‘Crucial’, ma avrebbe meritato sorte migliore.

  

Prince in questo periodo è in piena tempesta creativa: sforna album al ritmo di uno l’anno, gira film, scrive per altri (dalle Bangles ai suoi protetti The Time), trova il tempo di fondare un’etichetta discografica (la Paisley Park) e persino di imbarcarsi in una serie di progetti incompiuti che talvolta rasentano l’assurdo, vedi alla voce Camille (l’idea era incidere canzoni alterando artificialmente il pitch della voce affinché sembrassero cantate da una donna, per poi spacciarle come parto di una fittizia cantante esordiente: Camille appunto). Ad andare in porto è invece un’altra situazione “anonima”: i Madhouse. Due album in carnet (su Paisley Park, oggi piuttosto rari e stampati in CD solo clandestinamente), entrambi del 1987 e rispettivamente intitolati ‘8’ e ‘16’, con otto brani a testa intitolati numericamente da ‘1’ in poi. Sul primo suona tutto Prince (non creditato) con il fido Eric Leeds al sax e al flauto; sul secondo, ai due si aggiungono Levi Seacer Jr al basso e Sheila E. alla batteria. Molto alla larga potremmo definirli fusion, ma nel caso specifico più che il rock (che pure si sente qui e lì) sono il funk e l’R&B a “fondersi” con il jazz: provate a immaginare una versione strumentale e virata jazz del sound di Prince del periodo che va grossomodo da ‘Sign O’ The Times’ a ‘Love Symbol’ per avere un’idea. Più di un brano nasconde spunti interessanti, siano essi fraseggi di un Leeds in ottima forma o pattern ritmici coinvolgenti e ricchi di groove; ad “ammazzare” i due dischi sono però i suoni, ricchi di riverbero ed altre soluzioni tipicamente anni ’80 (certe tastiere in primis). Di certo sono invecchiati meglio di un ‘Tutu’, ma la “patina” che li avvolge è ancora troppo seccante per permettergli una riabilitazione completa. Prince porta i Madhouse persino in tour come opening band (lui e Sheila E. però sul palco non ci vanno, sostituiti rispettivamente da “Doctor” Fink e John Lewis), ma il progetto, nonostante materiale per almeno altri due album registrato negli anni successivi (e, manco a dirlo, ampiamente bootlegato), non avrà seguito.

Passeranno quasi tre lustri prima di riascoltare il musicista del Minnesota di nuovo alle prese con un disco jazz. Nel mezzo ci saranno i ben noti problemi contrattuali con la Warner che lo porteranno ad abbandonare il suo nome (poi riadottato all’alba del nuovo millennio) per farsi indicare con un simbolo (quello sulla copertina dell’album del 1992, divenuto noto appunto come ‘Love Symbol’), la creazione di una nuova casa discografica (la NPG Music), la solita pletora di album e la creazione di un sito internet che, in tempi quasi pionieristici, offre in vendita musica inedita. È proprio sulle sue pagine web che, a capodanno del 2003, fa la sua inaspettata comparsa in download digitale ‘Xpectation’, ancora tutto strumentale e pubblicato a suo nome, senza pseudonimi né “ghost credits” di sorta. La prima parte è una sorta di mainstream jazz “visto attraverso gli occhi di Prince”, che non lesina dunque escursioni nei suoi soliti generi di riferimento: episodio migliore forse ‘Xcogitate’, la cui melodia fa battere il piedino, ma sulla stessa scia ben figurano anche ‘Xemplify’ o la title-track irrorata di funk. Ad accompagnarlo, quasi la stessa formazione che lo segue sul palco in quel periodo: John Blackwell alla batteria, Candy Dulfer al sax (che si dimostra versatile e non trascina il tutto in territori eccessivamente soft) e Rhonda Smith al basso, con il violino di Vanessa Mae ad arricchire l’insieme. Non si tratta di musicisti “esclusivamente jazz”, e forse proprio questa loro caratteristica rende interessanti i momenti più strettamente imparentati con quest’ultimo genere, regalandogli un approccio quantomeno personale. Il problema vero semmai è la seconda metà del disco, che inizia a mostrare la corda: le soffuse ‘Xotica’ e ‘Xosphere’ anticipano in qualche modo i temi del successivo ‘N.E.W.S.’, mentre nella conclusiva, più articolata ‘Xpedition’, emergono richiami fusion non proprio convincenti. Oltre alla versione digitale dell’album, è infine interessante ricordare l’esistenza di una versione in CD non ufficiale (arricchita da alcune bonus track) ad opera della Sabotage Records.

Sempre in download esclusivo per gli abbonati al website npgmusicclub.com fa la comparsa l’ambizioso ‘C-Note’, che raccoglie cinque registrazioni catturate durante i soundcheck dell’ultima parte del One Night Alone Tour del 2002, degne d’interesse soprattutto perché per la prima volta ci permettono di ascoltare Prince e i suoi in un contesto di completa improvvisazione. La band d’accompagnamento è quasi la stessa di ‘Xpectation’: manca Vanessa Mae, ma ad arricchire il tutto troviamo Renato Neto alle tastiere e un notevolissimo trio di fiati che va ad affiancare la Dulfer, composto da Maceo Parker (sax), Greg Boyer (trombone) e il fedele tenore di Eric Leeds. I brani prendono i nomi dalle città in cui sono stati incisi, e i primi due parlano la lingua di un jazz funk ruvido e coinvolgente, che trova in ‘Nagoya’ il pezzo migliore del lotto: l’ispirazione è di chiara impronta anni ’70, con tanto di chitarra elettrica che subentra prepotente da metà in poi e porta anche il rock nell’equazione (la buttiamo lì: come se i momenti più “duri” di Sly Stone e George Clinton s’incontrassero con qualcosa tipo il gruppo di Lonnie Liston Smith). Diametralmente opposta è la pur ottima ‘Osaka’, lenta e atmosferica, dominata dallo scandire ipnotico di basso e batteria con fraseggi di piano a “riempire i vuoti”. Una formula che viene ripetuta (con qualche chitarra pulita più in evidenza) nella successiva ‘Tokyo’, dove però inizia già a venire a noia. Unico brano cantato del lotto è la conclusiva ‘Empty Room’, originariamente composta nel 1985 e stilisticamente in linea con le ballad più famose di Prince.

‘N.E.W.S.’ arriva a soli 6 mesi di distanza da ‘Xpectation’, ma stavolta si tratta di un disco “fisico”, inizialmente in vendita attraverso il solito website, poco dopo anche nei negozi, seppure in sordina e senza alcuna promozione. Prima ancora che per la musica, ‘N.E.W.S.’ si fa notare per la confezione scomodissima da aprire: quattro lembi di cartone incastrati tra loro sigillano il disco, formando, una volta aperti, una specie di rosa dei venti; e infatti i quattro brani in scaletta, ancora una volta tutti strumentali, si chiamano come i punti cardinali. Ognuno di essi dura 14 minuti esatti, e attorno a Prince, seppur non creditati, i musicisti sono i soliti noti (nello specifico: Leeds, Blackwell, Neto e Rhonda Smith). Le idee tuttavia ci sono solo a sprazzi, e spesso si ascoltano passaggi buttati un po’ a caso giusto per arrotondare la durata ai minuti prestabiliti (si vedano ad esempio certe soporifere escursioni ai limiti di ambient e new age). ‘East’ si aggiudica la palma di episodio migliore: partenza percussiva, Leeds in grande spolvero, parentesi rock, poi via a tutto funk. Si tratta, in effetti, della conferma che i migliori risultati arrivano quando Prince il jazz lo usa soltanto come un’influenza da cui attingere per cimentarsi con quel che sa fare meglio (il funk, in questo caso specifico), piuttosto che adoperarlo come elemento preponderante. Bene anche ‘West’ e ‘South’, che, seppure altalenanti, offrono più di un momento jazz funk infuocato (nella prima Leeds sembra quasi voler recuperare lo spirito di qualche texas tenor).

A tutt’oggi ‘N.E.W.S.’ resta l’ultima volta che Prince si è lasciato andare a un disco totalmente strumentale nonché influenzato da jazz e dintorni: sarebbe ragionevole pensare che si tratti di un capitolo ormai definitivamente archiviato, che rimane ad uso e consumo dei suoi sostenitori più strenui, o almeno a quelli di loro interessati anche ad altri orizzonti stilistici. Tra i Madhouse (1987) e ‘Xpectation’ (2003) sono intercorsi però la bellezza di tre lustri: magari tra qualche anno dalle parti di Minneapolis soffierà di nuovo il vento di quella passione mai sopita di eredità paterna… (Nico Toscani)

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