Che ogni scusa sia buona per dedicare un po’ di spazio a Bill Cosby ormai lo avrete capito. Come spiegavamo qualche mese fa, l’ex Dottor Robinson continua a girare in tour per l’America con i suoi spettacoli di stand up comedy. Proprio questa sera ne terrà uno, un benefit, presso il SFJazz Center: si tratta della nuova sala da concerti della SFJazz Organization di, appunto, San Francisco, nella quale Bill Cosby ha presentato la serata di inaugurazione lo scorso Gennaio. In occasione di questo nuovo appuntamento, lo showman americano ha rilasciato un’interessante intervista “a tema jazz” sulle pagine di MercuryNews nella quale spazia in lungo e in largo tra passato e presente, cercando persino di argomentare il suo supporto alla controversa campagna di Nicholas Payton per sostituire il termine “jazz” con la definizione “black american music”. Di seguito ve ne proponiamo la traduzione in italiano.
Parlaci di qualcuno dei tuoi musicisti preferiti.
Miles ce l’ho nel cuore, così come Philly Joe Jones. E anche Freddie Hubbard: lo amavo. Amavo quel che pensava e ciò che stava cercando di fare. Ho sempre pensato che se non avesse bruciato le sue capacità sarebbe potuto diventare per la tromba ciò che Coltrane rappresenta per il sax tenore.
Come ti mantenevi aggiornato sul jazz durante i tuoi anni di servizio nella Marina?
Avevo il mio “spacciatore”, lo incontravo ogni qualvolta veniva per qualche giro di ricognizione! All’epoca stazionavo presso l’isola di Terranova (al largo della costa canadese orientale, nda) e lì i distributori discografici non mandavano nulla: fortuna che avevo il mio “fornitore” di jazz! Si chiamava Ronald Crockett e quando veniva da quelle parti mi portava gli LP: tanta roba del Modern Jazz Quartet o di Chico Hamilton. Comprai da lui il mio primo disco del Ramsey Lewis Trio, anche.
Ricordi qualcuna delle ragazze che attiravano la tua attenzione alle feste da ballo jazz che frequentavi da adolescente a Philadelphia?
Carole De Braganza. Frequentava il mio liceo, l’avevo vista a diverse feste e il suo nome era sulla bocca di tutti: era bellissima. Andò insieme a qualcuno a vedere Horace Silver e Horace si innamorò di lei. Era di origini brasiliane, era del mio stesso colore. Io ammiravo i musicisti proprio per via del modo in cui le ragazze li guardavano. Non potevo fare a meno di pensare: ‘Guarda questi! Se sapessi suonare come loro le ragazze vorrebbero stare con me!’. I musicisti avevano un linguaggio del corpo così “cool”… Quanti cappelli pork pie sono stati venduti a causa di Prez (Lester Young, nda)? Quanti zoot suit sono stati venduti per via di Cab Calloway? E quanti completi firmati Brooks Brothers sono stati venduti perché Art Blakey e Miles Davis li indossavano? Quando sei rispettato, tutti osservano quel che fai e vogliono farlo anche loro; ancora oggi è così.
Sei ottimista riguardo il futuro del jazz?
C’è una famosa vignetta che è famosa solo nella mia testa, visto che io l’ho disegnata. È tutto buio, come in assenza di elettricità, e gli esseri umani sono scomparsi. Nell’oscurità spicca una lapide: “Jazz”. E sotto dice soltanto: “Ha chiuso in pareggio”.
Il trombettista Nicholas Payton sta promuovendo una campagna per abolire l’uso della parola “jazz” e sostituirla con “black american music” o “BAM”. Cosa ne pensi?
La ritengo un’idea meravigliosa. Le pubblicazioni di musica classica europea rifiutano di identificarsi come “caucasiche”, usano invece la definizione “classica”, come se fossero di tutto il mondo. È come la Major League di Baseball: “ed ecco gli Yankees, campioni del mondo!”. Ma non hanno giocato in Giappone. E nemmeno a Cuba o a Porto Rico. E allora sì, è un’idea magnifica quella di Nicholas Payton, peraltro già avuta in passato da Max Roach. E anche da Art Blakey e da Rashaan Roland Kirk. Vorrei che venisse adottata da tutti gli altri, in modo che, ascoltando per esempio la WBGO, potremmo sentirgli dire “e questa è musica nera americana nell’interpretazione di…”, e così via. È giusto. E non è più il mio pensiero a parlare, ma qualcosa che ho appreso: c’era questo tizio che chiese a John Coltrane, “Ti piace la musica classica?”. E John gli rispose: “Beh, che tipo di musica classica?”. E la persona che gli aveva posto la domanda fu colta in contropiede. John, che era una persona squisita, non lo demolì. Gli disse: “Non so cosa intendi. C’è musica classica europea, musica classica giapponese, musica classica indiana…”. E penso avesse ragione. Se ci rifletti, probabilmente l’unico intoppo è la parola “black”, che intimorisce ancora un sacco di gente. Si spaventano, o diventano gelosi, e non sanno il perché. Tuttavia penso che, almeno nella musica, (gli europei, nda) non dovrebbero aver problemi a dire “questa è black american music”. Negli Stati Uniti invece avrebbero di sicuro delle remore.