FREE FALL JAZZ

Louis Armstrong's Articles

Questo pezzo che oggi pubblichiamo è la versione originaria, ma leggermente modificata e corretta, dell’articolo che è comparso sul numero di Giugno 2015 di Musica Jazz. Ho pensato che la multimedialità offerta dalla rete potesse arricchirlo con tutti i riferimenti e quasi tutti i brani citati in quello scritto su carta stampata che viceversa diventava un articolo ad uso quasi esclusivo di esperti in possesso di quel materiale, cioè in definitiva non nella disponibilità di tutti. Spero che la cosa sia di un qualche interesse e/o utilità. Buona video lettura. (Continua a leggere)

Che siate fan terminali dell’uomo o semplici appassionati di jazz in generale, il museo dedicato a Louis Armstrong a New York (a Corona, frazione nel nord del quartiere Queens, per la precisione) resta una meta imperdibile, seppur non dietro l’angolo, per il miglior “turismo musicale”.

Allestito nella casa di mattoni in cui per 28 anni, dal 1943 al 1971, il trombettista ha vissuto con la moglie Lucille, il museo esibisce una gran quantità di memorabilia e al contempo lascia intatti gli interni, evitando di modificare l’arredamento e la configurazione delle stanze (la cucina color turchese che vi proponiamo qui sopra resta forse l’immagine più famosa). (Continua a leggere)

Se esiste il jazz per orchestra lo dobbiamo innanzitutto a Fletcher Henderson, pianista e caporchestra che assemblò e diresse per primo una compagine jazzistica estesa – che è cosa ben diversa dalle dance band di musicisti come Paul Whiteman. Henderson poteva contare su strumentisti di grande valore, fra cui Don Redman, sassofonista, clarinettista e soprattutto arrangiatore di genio. Fu proprio Redman a dare una fisionomia definitiva all’orchestra jazz, con arrangiamenti scritti che lasciavano comunque spazio all’improvvisazione dei solisti, e ad elaborare un suono complessivo che usciva dalla combinazione di sezioni (trombe, tromboni, sassofoni, clarinetti), a volte amalgamate, a volte impegnate in botta e risposta, spesso alle prese con iridescenti tappeti sonori in funzione del solista di turno. (Continua a leggere)

Questo concerto documenta un’occasione davvero speciale: un concerto di Louis Armstrong di ritorno in patria dopo due trionfali tour di Africa ed Europa. Per festeggiare il successo di Satchmo, eccolo assieme alla New York Philarmonic diretta da Leonard Bernstein (uno dei direttori e musicisti più progressisti e addentro al jazz) in un imponente arrangiamento di ‘Saint Louis Blues’. Un commosso W.C. Handy, compositore del celebre brano, viene inquadrato in mezzo al pubblico.


Difficile dire qualcosa che non sia mai stato detto su Louis Armstrong, infatti nemmeno ci proviamo. Però proporvi un filmato tratto dalla sua prima tournè europea lo possiamo fare, questo sì. Satchmo con la sua orchestra degli anni ’30 ripreso dalla tv danese in tutto il suo splendore.


L’errore di album come questo è a monte, nella malcelata malafede. Come dar torto, però, a chi orchestra il piano? Ci guadagnano tutti, a ben vedere. Per Marsalis è un’opportunità in più per far conoscere le proprie capacità di trombettista oltre la cerchia del jazz. Per Clapton è la possibilità di togliersi uno sfizio da pensionato annoiato e magari sentirsi anche elogiare per la maturità e la voglia di mettersi in discussione. Per l’etichetta, poi, è un vero invito a nozze: spesa esigua (perché realizzare una registrazione live costa di certo meno che un album in studio) e un disco potenzialmente vendibile a due tipologie di pubblico. Gli unici a prendersela in quel posto sono quelli che spendono i fatidici 18 euro (o anche di più, nel caso della combo CD+DVD) per portarsi a casa ‘Play The Blues’.

La scaletta pesca principalmente classici dagli anni ’40 a ritroso, orientata soprattutto sul versante dixieland/New Orleans, seppur con qualche variante blues. Questi ultimi sono ovviamente i momenti in cui Clapton sembra più a suo agio, mentre altrove è letteralmente sovrastato dalla big band messa insieme da Marsalis, il quale, tra classe e mestiere, non sfigura, ma non è che avessimo bisogno di un disco come questo per ricordarcelo. (Continua a leggere)

Da un’idea della nostra Dinahrose, inauguriamo oggi una nuova rubrica dalla cadenza regolarmente variabile (insomma, ormai ci conoscete). Oggetto della suddetta saranno i volumi, quelli misurati in pagine piuttosto che decibel, imparentati in maniera più o meno diretta con la “nostra” musica. Senza andare (ancora) a pescare chissà quale tomo dimenticato da tutti i cataloghi, dedichiamo questa prima puntata a un titolo acquistabile senza patemi in tutte le librerie. In realtà,nel caso specifico, da leggere c’è davvero poco: ‘A memoria di jazz’ è infatti un lavoro soprattutto fotografico. Hervé Gloaguen, il suo autore, è un fotogiornalista francese appassionato di musica, che ha avuto la fortuna di svolgere la sua gavetta, tra Parigi e New Orleans, negli anni ’60, periodo che gli ha permesso di assistere dal vivo, pellicola alla mano, alle esibizioni di praticamente tutti i più grandi interpreti di jazz. Oggi sessanta (numero a caso?) di quegli scatti sono raccolti in questo volumetto rigorosamente in bianco e nero e assolutamente spettacolare a vedersi: formato A5 (circa), copertina rigida, carta patinata di ottimo spessore.

Il periodo cruciale ha permesso all’autore di incrociare musicisti appartenenti a generazioni musicali differenti, e dunque tramite i personaggi raffigurati risulta possibile ripercorrere, seppure a grandi linee, la storia e l’evoluzione di un intero genere (Continua a leggere)