FREE FALL JAZZ

Archive for " giugno, 2013 "

Per ravvivare questo weekend, ecco un concerto del grandissimo Freddie Hubbard in quel di Ancona. La formazione comprende pure un giovanissimo Kenny Garret in forma smagliante, quindi prendetevi venti minuti per questa splendida versione di ‘Little Sunflower’!



Da quando sono un “appassionato di jazz” il nome Montreux si affianca spesso agli ascolti più illustri, avvolgendosi in un’aurea di solenne rispetto. Per la mia ancora acerba esperienza, spiccano su tutti i nomi di Charles Lloyd, Bill Evans, Miles Davis, Count Basie, Charlie Mingus, Archie Shepp, John McLaughlin, Billy Cobham, Joao Gilberto, Tom Jobim, Stevie Ray Vaughan, Abdullah Ibrahim, Chick Corea, Herbie Hancock, Bireli lagrene e i Green Day (Chi!!? Ma che minchia dici?! – Beh, ci sono nel programma di quest’anno… – E che michia è!? “Trova l’intruso” della Settimana Enigmistica??!) e molti altri ancora.

Dal 1967, grazie all’idea di un lungimirante impiegato dell’ufficio turistico appassionato di Jazz (stiamo parlando del da poco compianto Claude Nobs), Montreux si trasforma in una festa colarata e sonante. Un festival per l’esattezza. Una sorta di valhalla per gli appassionati di jazz. Una meta, per noi europei, quasi inarrivabile, irraggiungibile, distante una traversata Atlantica. Già, l’Atlantico: l’oceano delle grandi navi e delle loro big band. Un viaggio dall’altra parte del mondo… Prendere il biglietto, fare scalo, ore e ore di aereo per atterr… come!? Montreux…  mh… Ah, in Svizzera!? Ah, a tre ore e mezza di pandino? Ah… vabbeh, senti… fammi disdire il volo va’… (Continua a leggere)

Il tizio coi capelli rossi ripreso nel monitor raffigurato qui sopra è Dave Mustaine, leader dei Megadeth.

Se non siete pratici di heavy metal, ecco un bignami del personaggio in questione: ha pubblicato alcuni acclamati capolavori del genere ma, soprattutto, per anni si è costruito una meritata fama da cacacazzi di serie A, capace di insultare o buttare le mani con foga da bulletto di Tor Bella Monaca solo perchè quella mattina si è svegliato con la luna di traverso. Da quando ci ha dato un taglio con alcool e sostanze psicotrope apre bocca soprattutto per sbandierare ai quattro venti la propria fede da born again christian o lanciarsi in bislacche teorie complottiste. La qualità dei suoi dischi è intanto colata più o meno a picco.

La longa manus è quella dei soliti mattacchioni di Funny Or Die: in un video che parodizza gli spot della catena d’abbigliamento maschile Men’s Wearhouse, vediamo il suddetto Mustaine consigliare il suo ultimo disco a un ragazzo che deve “caricarsi” in vista di un colloquio di lavoro.

E poi, all’improvviso, Kenny G…

Ancora una volta sarà il miglior momento della vostra settimana, garantito. Chi volesse recuperare le puntate precedenti della saga può cliccare qui e qui.

Rieccolo finalmente! Accompagnato dai fidatissimi Bryce Winston (sax) e Kendrick Scott (batteria), nella band da parecchi anni, dal pianista Fabian Almazan (già sul precedente ‘Choices’) e dal nuovo contrabbassista Joshua Crumbley, Blanchard ripercorre almeno in parte quei sentieri esplorati negli ottimi ‘Bounce’ e ‘Flow’, quindi post-bop deluxe, vivacissimo, ricco di colori diversi e con un’attenzione maniacale per il suono e la dinamica dei brani. E seguendo le orme di Art Blakey, il grande trombettista incoraggia i ragazzi a farsi avanti con composizioni originali: i loro diversi input, sotto la sua esperta e benevola guida, danno vita ad un visionario arco narrativo. Il disco si apre col pezzo omonimo, dall’atmosfera solare e positiva che parte su un ritmo boogaloo à la Lee Morgan e si evolve attraverso numerose variazione di suono e intensità. (Continua a leggere)

Vent’anni fa, tra il 23 e il 24 Giugno del 1993, si spegneva a soli 36 anni l’altosassofonista capitolino Massimo Urbani. Nonostante il comprovato talento, in vita aveva raccolto meno del dovuto, e anche nei primi anni successivi alla sua scomparsa sembrava destinato a rimanere culto per pochi eletti. Un prestigioso premio per giovani jazzisti venne istituito in suo nome nel 1996, e fu il primo passo di una progressiva riscoperta della sua figura, spesso mitizzata e accostata con leggerezza a quella di Charlie Parker. Di certo l’influenza di quest’ultimo è stata importantissima per la musica di Urbani, che per giunta, proprio come Parker, se n’è andato giovanissimo dopo qualche eccesso di troppo, ma, tolto ciò, parliamo di altri posti, altre epoche, altro tutto. Ben venga comunque questa sorta di “mitizzazione” se può rivelarsi utile al recupero della musica vera e propria: meglio tardi che mai verrebbe da dire. (Continua a leggere)

Grazie agli amici di Controtempo e alle riprese di Paolo Burato e Fausto Pizzocchero non posso che condividere il concerto completo di BOBBY PREVITE BUMP meets PAN-ATLANTIC (USA-Austria-Italy) registrato al Teatro Comunale di Cormòns (GO) il 20 Ottobre 2011.

Questa la formazione:

Bobby Previte: drums
Wolfgang Puschnig: alto sax
Gianluca Petrella: trombone
Wayne Horvitz: piano, keyboards
Steve Swallow: electric bass

Se scendi alla metro di Finsbury Park, proprio lì di fronte vedrai l’insegna del Silver Bullet. Mo’ non ricordo che giorno, ma di sicuro lì fanno le jam… Ma mica solo di jazz, anche rock ed “International” (che non so che significa. Forse Pop internazionale… Mah). E come suonano! Bravi davvero. E soprattutto una bella atmosfera da far sentire a casa anche dei terroni provinciali come noi: quelli della “banda del fungo”, gli Amanita. Saliti con i potenti mezzi della Ryanair dalle rive del Crati su su fino al Tamigi per tre date all’ombra del Big Sdeng! Ah… Non si chiama così?? A dirigere le Jam session di jazz al Silver Bullet c’è un tizio di colore alto e robusto, con la faccia scavata dalla vita, di quelli che sembrano burberi, ma col cuore d’oro (moooolto in fondo), capelli “arràsta” fino al culo e un sax tenore tra le labbra: lui presenta con scioltezza, invita i musicisti prenotati ad esibirsi e dirige le cose solo quando è necessario. (Continua a leggere)

Quello di Dario Germani, contrabbassista laziale, è un trio pianoless (oltre al titolare: Stefano Preziosi al contralto, Luigi Del Prete alla batteria e l’ospite Max Ionata al tenore) che si muove con disinvoltura tra cool jazz e bop, proponendo, oltre a un pugno di originali, una serie di riletture per nulla ovvie (pescate dai repertori di monumenti come Paul Desmond, Bud Powell, Monk, Yusef Lateef e Miles Davis). Dell’ottimo esordio ‘For Life’ (Tosky Records) vi abbiamo già ampiamente detto in sede di recensione: ora è il momento di porre qualche domanda per conoscerlo meglio.

Ascoltando ‘For Life’ non si direbbe, ma nasci come musicista rock. Raccontaci il tuo percorso musicale: come sei arrivato infine al jazz?
Ho iniziato suonando musica rock con il basso elettrico, strumento che avevo iniziato a studiare con il maestro Gianluca Renzi, per poi passare al contrabbasso, sempre parallelamente agli studi classici. All’inizio il jazz mi interessava solo come studio, poi si è trasformato in una vera e propria passione per la vita. Il jazz è un viaggio infinito senza ritorno, secondo me. (Continua a leggere)

Se esiste il jazz per orchestra lo dobbiamo innanzitutto a Fletcher Henderson, pianista e caporchestra che assemblò e diresse per primo una compagine jazzistica estesa – che è cosa ben diversa dalle dance band di musicisti come Paul Whiteman. Henderson poteva contare su strumentisti di grande valore, fra cui Don Redman, sassofonista, clarinettista e soprattutto arrangiatore di genio. Fu proprio Redman a dare una fisionomia definitiva all’orchestra jazz, con arrangiamenti scritti che lasciavano comunque spazio all’improvvisazione dei solisti, e ad elaborare un suono complessivo che usciva dalla combinazione di sezioni (trombe, tromboni, sassofoni, clarinetti), a volte amalgamate, a volte impegnate in botta e risposta, spesso alle prese con iridescenti tappeti sonori in funzione del solista di turno. (Continua a leggere)

Avrebbe compiuto ben 91 anni il prossimo 25 Giugno, ma purtroppo i postumi di una brutta caduta se lo sono portato via mercoledì scorso. Johnny Smith con la sua chitarra ha scritto pagine memorabili nella storia del cool jazz (le più note: ’Walk Don’t Run’ e ‘Moonlight In Vermont’, quest’ultima spalleggiato da Stan Getz), e ha suonato la chitarra in formazioni guidate da gente come Count Basie e Stan Kenton.

Nonostante le referenze di rilievo, oggi sono in pochi a ricordarsi di lui, questo perchè, a differenza di altri colleghi attivi fino in tarda età, si è ritirato dalle scene all’apice della carriera, alla fine degli anni ’50. Una decisione sofferta come non mai: “Mia moglie morìspiegava - E mi trovai a dovermi prendere cura da solo di una figlia di 5 anni. Non avrei mai potuto allevarla a dovere continuando a suonare in studio e nei club come facevo all’epoca”. Così lasciò la tentacolare New York City e si rifugiò in Colorado, dove vivevano sua madre e i suoi fratelli. Una decisione un po’ più facile da prendere, questa: “Non è per sparlare di New York, ma non sopportavo quello stile di vita e tutta la pressione che portava con sé. Proprio non mi piaceva”. (Continua a leggere)

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