FREE FALL JAZZ

Freddie Hubbard's Articles

In un periodo storico nel quale, specie in Europa, sembra prevalere nella musica improvvisata una deriva verso un progressivo allontanamento da certe peculiarità africane-americane proprie del jazz, almeno per come molti di noi lo hanno conosciuto ed imparato ad amare nel secolo scorso, si assiste oggi sempre più spesso in tale ambito ad una sorta di sublimazione delle componenti ritmiche e poliritmiche, in favore di proposte che puntano più ad un utilizzo coloristico e timbrico degli strumenti ritmici (in particolare della batteria) sottraendoli dagli usuali compiti di scansione. Proprio per tale ragione e in un certo senso in contrapposizione a tale tendenza, ho scelto di riproporre all’attenzione questo album di Sonny Rollins del 1966 che, pur non essendo tra i suoi più citati è in realtà un suo sottostimato capolavoro, ed è, a mio avviso, quanto mai esemplificativo in termini musicali del concetto che così sommariamente ho tentato di esporre. (Continua a leggere)

Questo breve testo nasce da una serie di incomplete annotazioni sull’accoglienza riservata ad alcune strutture linguistiche nate in seno al jazz ma annoverate e criticate come spurie. Trattasi, perciò, di nient’altro che spunti e frammenti che verranno approfonditi in altro scritto.

Mi sono di recente trovato a rileggere un lontano scritto di Franco Pecori pubblicato da Jazz From Italy nella sua pagina Facebook: Nessun’arte, e nemmeno la musica, è mai pura; questo è un equivoco idealistico. Altrimenti, non si capirebbe la nascita e la relativa fioritura della dodecafonia proprio nella Vienna degli anni tra le due guerre; e neanche si capirebbe l’esplosione del free negli anni Sessanta, in un tipo di società impostata sull’imperialismo economico, seriamente minata dall’alienazione dei consumi e lacerata da profondi contrasti razziali. Mi ha provocato non poche perplessità l’idea di “inevitabilità” (un sotto-prodotto del progresso in senso marxiano), come se, in fondo, esista un Fato (o una giustizia storica o una qualsiasi logica ferrea e stringente) che cerchi di controbilanciare con le sue azioni altre azioni ancora, prodotte da se stesso o da un altro Fato avverso, o da altra logica umana o cosmica. (Continua a leggere)

Formazione stellare (Ron Carter, Cedar Walton, Lenny White) in questo set di Freddie Hubbard, risalente forse agli anni ’80 e trasmesso pure da qualche tramissione giapponese – lo testimoniano i sottotitoli! Poco da aggiungere, prendetevi un’ora e alzate il volume.



Il Record Store Day è passato anche quest’anno e sul suo conto se ne sono sentite in abbondanza. Questo lunedì festivo tuttavia allunga il weekend quel tanto che basta per permetterci di aggiungere ancora qualcosa sull’argomento. Sperando non ne abbiate le tasche piene, ovviamente.

Vorrei partire dalla fine: il negozio di dischi è ormai obsoleto sentenziava il socio Negrodeath alla fine della sua analisi. Un’osservazione vera soltanto in parte, visto che secondo me i paletti non sono così rigidi e una “convivenza” tra negozi reali e virtuali un senso ce l’avrebbe anche. Fondamentalmente dipende da che tipo di dischi cerchiamo, ma andiamo con ordine. (Continua a leggere)

Il compleanno del grande McCoy Tyner è passato da poco. Noi lo festeggiamo un po’ in ritardo con questa bella esibizione a Norimberga del 1986, con Freddie Hubbard e Joe Henderson ospiti super-deluxe.


Non sappiamo esattamente chi suoni cosa, nè facciamo ipotesi, ma in questa ‘Red Clay’ troviamo un giovanissimo Wynton Marsalis ospite del gruppdo Freddie Hubbard. “Picture This” per modo di dire, visto che si tratta di solo audio…

Di recente, in occasione del nuovo, ottimo album di Etienne Charles, parlavamo del solido legame che unisce il jazz con i luoghi e le sonorità dell’America centro-meridionale. Una parentela dalle origini antiche (basti citare il caso forse più famoso, Dizzy Gillespie, che abbeverandosi a quelle fonti ha prodotto alcuni dei migliori episodi della sua sterminata carriera) e che ancora oggi perdura con immutata efficacia grazie alle intuizioni di musicisti come James Carter o lo stesso Charles. Tra coloro che nel tempo hanno strizzato l’occhio alle sonorità caraibiche, quello di Freddie Hubbard non è tuttavia il primo nome a venire in mente. Anzi, nemmeno il secondo o il terzo.  Lo si può identificare coi suoi capolavori su Blue Note, con la svolta più “facile” (e assai meno riuscita) verso territori soul/funk, finanche con una manciata di dischi piuttosto sperimentali per i suoi canoni (l’ottimo ‘Red Clay’, da riscoprire), eppure, per quanto trascurato, in certe zone geografico-musicali ci è passato anche lui. Con ottimi risultati, per giunta. (Continua a leggere)

Per ravvivare questo weekend, ecco un concerto del grandissimo Freddie Hubbard in quel di Ancona. La formazione comprende pure un giovanissimo Kenny Garret in forma smagliante, quindi prendetevi venti minuti per questa splendida versione di ‘Little Sunflower’!


“Sanremo, tra grandi autori e tanto jazz il Festival della canzone al via il 12 febbraio”, recita il titolo di una velina Adnkronos riguardante l’imminente Festivàl. Tanto jazz, mica brodo di fagioli: “C’è il jazz di Raphael Gualazzi, che firma testi e musica di entrambi i suoi brani, ‘Sai (ci basta un sogno)’ e ‘Senza ritegno’ (che contiene una metafora “ti sparo nelle gambe e divento cristiano/dopotutto non è male se mi sento più umano”, che non piacerà ai cattolici), con i quali il pubblico dell’Ariston avrà difficoltà a rimanere fermo sulle poltrone.” Fremiamo. Nel frattempo, rimembriamo che un tempo a Sanremo c’era pure il Festival del Jazz e in tal occasione, nel 1963, fecero la loro prima data italiana Art Blakey e i Jazz Messengers, quelli della meravigliosa formazione con Hubbard, Shorter, Fuller e Walton. Quelli che potrete gustarvi qui sotto.


Il bellissimo filmato che vi accingete a visionare viene dagli archivi di una tv tedesca. Fu girato in occasione del settantesimo compleanno di Art Blakey al festival di Leverkusen, ed è una vera goduria per una serie di motivi. Il primo, banalmente, è che si tratta di Art Blakey e dei Jazz Messengers, all’epoca composti da Brian Lynch (tromba), Javon Jackson (tenore), Donald Harrison (contralto), Frank Lacy (trombone), Essiet Okon Essiet (contrabbasso) e Geoff Keezer (piano); il secondo la parata di ospiti speciali, gente lanciata proprio da Blakey verso l’empireo che torna a festeggiare il maestro, e si parla di Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Benny Golson, Walter Davis jr, Jackie McLean e Terence Blanchard; ‘Mr Blakey’, un divertente brano scritto appositamente da Horace Silver (che non aveva potuto partecipare) e cantato da Michelle Hendricks; infine, Roy Haynes dietro la batteria e Art al pianoforte per una bella versione del classico di Monk ‘In Walked Bud’. E poi, la musica dei Messengers… ma quella non si discute, giusto?