FREE FALL JAZZ

In un periodo storico nel quale, specie in Europa, sembra prevalere nella musica improvvisata una deriva verso un progressivo allontanamento da certe peculiarità africane-americane proprie del jazz, almeno per come molti di noi lo hanno conosciuto ed imparato ad amare nel secolo scorso, si assiste oggi sempre più spesso in tale ambito ad una sorta di sublimazione delle componenti ritmiche e poliritmiche, in favore di proposte che puntano più ad un utilizzo coloristico e timbrico degli strumenti ritmici (in particolare della batteria) sottraendoli dagli usuali compiti di scansione. Proprio per tale ragione e in un certo senso in contrapposizione a tale tendenza, ho scelto di riproporre all’attenzione questo album di Sonny Rollins del 1966 che, pur non essendo tra i suoi più citati è in realtà un suo sottostimato capolavoro, ed è, a mio avviso, quanto mai esemplificativo in termini musicali del concetto che così sommariamente ho tentato di esporre.

Rollins in questa incisione fornisce un’autentica lezione ritmica in termini di libera improvvisazione jazzistica, riducendo tra l’altro volutamente all’osso, gli aspetti armonici e formali (in conformità peraltro alle tendenze “free” di quegli anni), proponendo temi che risultano di fatto essere degli scarni spunti ritmici che solo un gigante dell’improvvisazione come Sonny è in grado di sostenere in termini realmente creativi, grazie ad una fantasia ritmica quasi ineguagliabile nel saper trattare brandelli tematici costituiti da brevi dinoccolate frasi intervallari di stampo boppistico, nel caso del brano che dà il titolo al disco, e addirittura a un semplicissimo, pressoché banale riff di “hamptoniana” memoria, nel secondo, dal titolo Blessing in Disguise.

Niente pianoforte, quindi, peraltro come sua abitudine in quegli anni, strutture formali di riferimento all’improvvisazione minimali, ma solo una strepitosa ed affiatatissima ritmica a sostegno, costituita dal duo “coltraniano” Jimmy Garrison al basso e, soprattutto, Elvin Jones alla batteria, che nell’occasione col suo inconfondibile drumming poliritmico fornisce una prova semplicemente maiuscola. In aggiunta, la formazione si completa con la formidabile e creativa tromba del Freddie Hubbard di quegli anni, fiato che, in una sapiente alternanza di timbri e modalità stilistiche nel trattamento tematico, permette di gestire in termini adeguatamente dialettici il discorso improvvisativo proposto da Rollins.

Spesso si rimprovera al jazz di appoggiarsi troppo e ripetitivamente su strutture formali elementari quali quelle del blues e delle canzoni di 32 battute, critica a mio avviso impropria, ma qui bellamente confutata da Rollins, che arriva addirittura a minimizzare ancor più le  strutture su cui improvvisare utilizzando scheletrici spunti tematici. Vorrà forse dire qualcosa una scelta del genere? Eppure Rollins riesce a realizzare in questa incisione un jazz di livello elevatissimo tanto quanto certe complesse, ma anche a volte pretenziose e rigide, composizioni strutturate non riescono minimamente a fare.

Evidentemente il preambolo formale a pregiudizio valutativo della musica improvvisata può rivelarsi fuorviante e costituire persino un grave difetto distorsivo nella critica all’opera proposta dal musicista.

Il disco fu considerato da molti all’epoca un’opera “Free”, in considerazione anche del fatto che esso era il risultato di un periodo, gli anni ’60, nel quale Sonny, dal rientro dopo il famoso ritiro sul Williamsburg Bridge e in vista dell’imminente successivo storico ritiro, aveva esplorato l’improvvisazione nei nuovi territori dell’informale, insieme a un portabandiera delle istanze free di quei rivoluzionari anni come Don Cherry. In realtà non si tratta di un’opera classificabile nel Free, per diverse ragioni, tra le quali la più importante mi pare sia da rilevare nel drumming metricamente regolare, per quanto ritmicamente sofisticato ed ardito, di Elvin Jones, in tutte e tre le tracce del disco. L’idea di libertà in musica di Rollins  è senz’altro diversa e meno iconoclasta di quella proposta dai maggiori protagonisti del periodo.

In East Broadway Run Down, ossia la lunga traccia di apertura, Rollins sembra quasi voler descrivere in musica il movimento dinamico della New York di quei creativi anni, a mio avviso riuscendovi perfettamente. Il suo primo solo dopo l’enunciato all’unisono del tema è, sul piano degli accenti ritmici, del loro controllo e delle idee create quasi dal nulla, perfetto, sviscerando lo scarno spunto tematico in modo semplicemente strepitoso. Rollins si muove in un ambito armonico quasi assente, in questo senso davvero libero dagli usuali vincoli. Un apparente vantaggio per l’improvvisatore che in realtà si trova dopo poche battute a dover sostenere tutto il peso di una coerente trama musicale da svolgere. Rollins lo fa benissimo  per circa 2 minuti filati, lasciando poi il testimone ad uno splendido e ispirato Freddie Hubbard. Dopo un lungo intervento al contrabbasso di Jimmy Garrison e un intermezzo di raccordo di Sonny si ascolta un energico quanto controllato lungo assolo di Elvin Jones. Il brandello tematico viene quindi ripreso dai due fiati che lo riespongono in termini dialettici e dissonanti, non più quindi esattamente all’unisono ed utilizzato come ripartenza per successivi brevi spunti solistici, sia singoli che di coppia.

Prima della ripresa finale, Rollins, utilizzando arditamente il solo bocchino, si lancia in una esplorazione timbrica, questa sì  decisamente “free”, descrittiva quasi di una allucinata desolazione notturna metropolitana.

Analogo discorso si potrebbe fare per Blessing in Disguise, in cui il riff viene sfruttato da Rollins per creare con il suo solito approccio tematico un assolo davvero creativo sia sul piano melodico che ritmico.

Infine una immancabile riuscita concessione melodica, che Rollins personalizza aggiungendo un vago profumo caraibico, nella possente interpretazione di “We Kiss in a Shadow”, canzone tratta dal musical “The King and I” di Rodgers & Hammerstein, che diversifica e completa un’opera per nulla datata e degna di essere riapprezzata.
(Riccardo Facchi)

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