FREE FALL JAZZ

Questo breve testo nasce da una serie di incomplete annotazioni sull’accoglienza riservata ad alcune strutture linguistiche nate in seno al jazz ma annoverate e criticate come spurie. Trattasi, perciò, di nient’altro che spunti e frammenti che verranno approfonditi in altro scritto.

Mi sono di recente trovato a rileggere un lontano scritto di Franco Pecori pubblicato da Jazz From Italy nella sua pagina Facebook: Nessun’arte, e nemmeno la musica, è mai pura; questo è un equivoco idealistico. Altrimenti, non si capirebbe la nascita e la relativa fioritura della dodecafonia proprio nella Vienna degli anni tra le due guerre; e neanche si capirebbe l’esplosione del free negli anni Sessanta, in un tipo di società impostata sull’imperialismo economico, seriamente minata dall’alienazione dei consumi e lacerata da profondi contrasti razziali. Mi ha provocato non poche perplessità l’idea di “inevitabilità” (un sotto-prodotto del progresso in senso marxiano), come se, in fondo, esista un Fato (o una giustizia storica o una qualsiasi logica ferrea e stringente) che cerchi di controbilanciare con le sue azioni altre azioni ancora, prodotte da se stesso o da un altro Fato avverso, o da altra logica umana o cosmica.Pecori sosteneva l’inevitabilità del free-jazz, intesa ovviamente come ineludibile reazione all’imperialismo economico, all’alienazione dei consumi e ai contrasti razziali. Questo tipo di analisi è ancora oggi di comune diffusione; essa considera il jazz un’arte unicamente dettata da un inevitabile antagonismo nei confronti di un sistema persecutorio e iniquo: il jazz più autentico, più vero e più rispettabile è unicamente quello che si manifesta come strumento di lotta contro il sistema. Ogni altra sua espressione non è che un cedimento al sistema. Mi sono così trovato a commentare (e mi scuso per l’autocitazione):

“Credo che per troppi anni gli europei abbiano letto il “jazz” come “volevano loro”, con un’autoreferenzialità di tipico segno eurocentrico che è giunta a indossare i panni dell’appropriazione indebita più neo-colonialista. La narrazione del jazz è diventata poco più di un’appendice – per quanto consistente – a un’emanazione claudicante dell’internazionalismo socialista. Con il supporto anche di taluni intellettuali del Terzo Mondo (più africani, ad esempio, che africano-americani), la storia del jazz è stata vista come una fase della lotta rivoluzionaria contro il dominio borghese e capitalistico: ciò che non rientrava in tale cornice andava accantonato o, peggio, ignorato. Il che ha comportato un’analisi largamente incompleta, carente soprattutto di un’accurata comprensione delle dinamiche socio-culturali americane e africano-americane e delle dinamiche socio-culturali fra tali entità. I complessi e ramificati rapporti fra le culture africane d’origine e quella africano-americana e quella bianca americana, altrettanto varia e ramificata, sono stati spesso trascurati: quanto nel jazz non permetteva una plausibile lettura “antagonista” veniva letto come un reperto deteriore o inquinante, corrotto dalla “commercializzazione” e dal cedimento di parte della comunità africano-americana all’integrazione forzata (alle condizioni dei bianchi) e alle logiche perverse del capitalismo. Abbiamo letto la cultura africano-americana con la stessa logica con la quale alcuni leggevano le lotte di taluni popoli contro il colonialismo. Un parallelo non sostenibile (perché, comunque, gli Stati Uniti non avevano partecipato al colonialismo europeo: e per quanto si potessero attribuire agli Stati Uniti nefandezze analoghe, l’assenza di tale “peccato originale” ha comunque avuto un peso non trascurabile), perché del tutto viziato da un eurocentrismo che, in fondo, non ha mai voluto riconoscere agli Stati Uniti un diverso status da quello dell’ex-colonia e, comunque, di un’errante costola del sistema europeo. Ovvio che il free-jazz venisse letto come esaltante frutto di una rivoluzione permanente (vi erano certamente attivisti politici africano-americani che condividevano integralmente tale posizione), ma credo che solo una minima parte di esso (e forse la più trascurabile) potesse rispondere ai criteri di lettura adottati da coloro che vi volevano vedere un riflesso forte dell’internazionalismo rivoluzionario. Si è sottovalutato il potere attrattivo del cosiddetto ‘American Dream’, si è rifiutato di vedere nel jazz non solo un meccanismo di riflesso ma anche di evasione dalle distorsioni del sistema americano, un modo per lenire le ferite di un’esclusione degli africano-americani dall’American Dream. Non si è voluto considerare che forse una larga parte della comunità africano-americana intendesse aderire ai principî dell’American way of life, senza necessariamente essere considerati dei traditori della propria cultura, e che proprio l’esclusione dall’American Dream consistesse nella ferita più dolorosa. Non abbiamo voluto prendere in esame, se non con disdegno, che il jazz potesse costituire una voce potente di coloro che – esclusi, emarginati, schiavizzati, segregati – chiedevano non il rovesciamento della società americana bensì l’apertura di essa, la sua “inclusività” al posto di una violenta e oscena esclusione. Riconoscere che tali aspirazioni non necessariamente fossero un vergognoso cedimento alla tirannia del capitalismo bianco (piuttosto che la volontà di mutarne la configurazione dall’interno e non dall’esterno) forse ci avrebbe permesso di leggere più in profondità una storia fortemente complessa e che sfugge a talune categorizzazioni semplicistiche di stampo prettamente eurocentrico: i Nuovi Mondi, i laboratorî poli-etnici che ne costituiscono la fisionomia portante, richiedono forse nuovi approcci, nuove letture e, dunque, narrazioni diverse. Forse ci sarebbe apparso molto chiaro che talune forme di jazz erroneamente definite “commerciali” non erano che, invece, espressione di altre forme di lotta o di volontà di integrazione; o che la cultura africano-americana continua ad essere vittima di una drammatica esclusione che non sempre proviene dal sistema bianco ma è espressione di una volontà creatasi all’interno di altri gruppi etnici in competizione socio-economica fra di loro (e che trovano di fronte a sé una comunità africano-americana che ancora oggi paga, e pagherà ancora a lungo, l’effetto della ferita più nefasta e sanguinosa, quella della schiavitù). Forse ci sarebbe stata più chiara, ad esempio, l’adesione spesso entusiastica (e inevitabilmente e dolorosamente delusa) degli africano-americani al reclutamento dalla Guerra Civile alle due guerre mondiali sino al Vietnam. Insomma, forse ci saremmo trovati di fronte a un quadro che, oltretutto, ci avrebbe permesso di non accantonare con una certa rozza brutalità ‘etichettatoria’ e paternalistica una vasta serie di interessanti espressioni creative che invece sono a lungo finite nella pattumiera (ormai manifestamente fragile) della “commercializzazione”. Una grave manchevolezza che ha caratterizzato e ancora oggi caratterizza buona parte di una critica e di una musicologia i cui risultati, francamente, rischiano di apparire illusorî o, peggio, inquinati da una sorta di repellente razzismo alla rovescia.”

Trattasi di concetti che, per ovvi motivi di spazio, sono stati trattati in modo spiccio. Essi mi sono tornati alla mente pochi giorni dopo quando, in occasione della presentazione di un’interessante raccolta di pensieri sull’improvvisazione di Guido Mazzon e Guido Bosticco, un astante ha preso la parola, lapidario: “Il jazz è morto negli anni Settanta, dopo è solo stato commerciale”. In onore di una “rivoluzionarietà” spesso travisata, quando addirittura inesistente, alcuni decenni di storia della musica improvvisata sono stati amputati di una serie di preziose testimonianze nel rapporto fra il pensiero creativo contemporaneo e le tradizioni popolari, spacciate sommariamente per manifestazioni commerciali o inclini al compromesso. Si pensi soltanto alla ricchissima e spesso appassionante rielaborazione delle radici africane – fra mito, invenzione e revisionismo storico – nata negli anni Settanta dall’estatica predicazione musicale coltraniana e sommariamente definita “spiritual jazz”, in cui fortissimi erano anche i legami con i nuovi linguaggi – dal funk in poi – della contemporaneità popolare africano-americana, nonché con l’area politica della Nation of Islam e del Black Power, in concomitanza con l’espansione, negli Stati Uniti, della cultura e dei rituali religiosi afrocentrici (nello stesso periodo, non casualmente, pratiche come lo yoga e la spiritualità Zen si affermavano presso gli americani anche a livello popolare, come un rinnovato interesse per la storia africana, in modo particolare per l’egittologia). Una pletora di opere create da artisti e complessi come Pharoah Sanders, Alice Coltrane, Michael White, Eddie Gale, Mtume, Phil Cohran, Carlos Garnett, Albert Heath, Archie Shepp, Sonny Sharrock, Clifford Thornton, Doug Carn, Gary Bartz, McCoy Tyner, Bob Northern (Brother Ah), Don Cherry, Idris Ackamoor, Norman Connors, Ronnie Boykins, Leon Thomas, The Pharaohs, Yusef Lateef, Byron Morris, Khan Jamal, Phil Ranelin, Shamek Farrah, Ndikho Xaba and the Natives, Bama The Village Poet, Marcus Belgrave, Marion Brown, The Descendants of Mike and Phoebe, Lonnie Liston Smith, Gene Russell, Roy Brooks, Doug Hammond, The Last Poets, The Watts Prophets, John Betsch, The Pyramids, The Awakening, Wendell Harrison, Milton Marsh, Henry Franklin, Jayne Cortez, Roach Om, Calvin Keys, Rahsaan Roland Kirk, Walter Bishop, Lon Moshe & Southern Freedom Arkestra, Doug Hammond, Griot Galaxy e Faruq Z. Bey, Infinite Sound, The Detroit Jazz Composers Ltd., Maurice McIntyre, Donald Alexander Strachan & The Freedom Ensemble, Ensemble Al-Salaam, Hadley Caliman, Haki R. Madhubuti,Charles Sullivan, Noah Howard,Letta Mbulu, Warren Smith, Harold McKinney, Muriel Winston, Sarah Webster Fabio, Lloyd McNeil, Grachan Moncur, Oneness of Ju-ju, Hannibal Marvin Peterson sono finite nel dimenticatoio e un’analoga sottovalutazione culturalmente impropria guarda con malcelata intolleranza a chi quell’estetica oggi va riscoprendo e reinterpretando da più e diversi versanti, come Kamasi Washington, Nicholas Payton, Matana Roberts, Nicole Mitchell, Dwight Trible.

Altro imputato eccellente del reato di “commercializzazione” è stato il fenomeno variamente definito jazz-rock, crossover musicfusionsmooth jazz (in realtà non si tratta di generi equivalenti, ogni termine, a ben vedere, definisce epoche e approcci ben diversi). Non è ovviamente auspicabile una generale e generica rivalutazione di qualsiasi fenomeno musicale di cui si pensi che la Storia abbia fatto equa giustizia, ma parrebbe evidente che certa impostazione “iconoclasta” abbia fatto pulizia secondo suoi ben peculiari e inadeguati parametri. In nome e difesa della cultura africano-americana si è creata una cultura africano-americana inesistente, nella quale l’artista nero non era in realtà libero di essere sé stesso secondo i parametri delle sue varie tradizioni ma doveva creare e comportarsi ideologicamente secondo parametri, canoni, inclinazioni dettate da un’impostazione aliena come quella eurocentrica. Poiché la via verso l’inferno è, come si sa, lastricata di buone intenzioni, per tutelare la cultura dell’africano-americano alcuni studiosi e commentatori nelle improprie vesti di burattinai hanno creato e preteso d’imporre a degli intellettuali trattati (per l’appunto) da burattini un copione distaccato dalla realtà di quella stessa cultura, provocando così un razzismo alla rovescia. Si è preteso che l’intellettualità africano-americana si comportasse, in tutt’altro contesto e con necessità affatto diverse, come l’intelligencija europea dettava. Gli intellettuali africano-americani che non hanno aderito al copione sono stati derisi, ignorati, accusati di aspirazioni bianche o, peggio, di essere “commerciali”.

In tal senso la vicenda della cosiddetta fusion è esemplare: il termine, prima di venire soppiantato dall’altrettanto inerte ma più specifico smooth jazz, è giunto a essere epitome della discendenza più abnorme e deforme del jazz. Un ibrido repellente e ambiguamente prono ai gusti più deteriori di un pubblico borghese e apolitico, in cui sono stati confinati con equa imperizia sia professionisti del più claudicante intrattenimento, sia artisti di sostanziale rilevanza ma non allineabili ai canoni dettati dagli “ismi” del momento. Lo stesso approccio aveva già dettato in precedenza la condanna del cosiddetto mainstream come fenomeno “normalizzatore” e omologante delle innovazioni diffuse dalle avanguardie, e aveva, di fatto, espunto dalla storia del jazz artisti e correnti che non avessero dimostrato manifestamente un antagonismo nei confronti del sistema, che si trattasse di Louis Armstrong o Wayne Shorter (che proprio di recente Giampiero Cane ha accusato di vivere nell’ala imprenditoriale del mondo jazzistico dove si produceva un jazz hollywoodian-turistico secondo soltanto al folk revival o al piattume della terza strada), della Swing Era o del cosiddetto West Coast Jazz.

L’ostilità nei confronti delle correnti che hanno cercato con minori inibizioni di riallacciare il jazz alle sue radici popolari (ammodernatesi nel frattempo) e al contesto della cosiddetta “musica d’evasione” (termine spregiativo e errato che ingloba impropriamente anche quell’entertainment con cui il jazz ha avuto di sovente rapporti) accomuna – per quanto con motivazioni diverse – sia la critica engagée che quella più tradizionalista: il “cedimento” nei confronti dei linguaggi popolari è comunque inteso non come una dinamica del tutto naturale per una struttura che affonda le sue radici in una molteplicità e in un’inclusività di vernacoli, bensì come un’infrazione all’ortodossia musicale (secondo un Canone dai contorni estremamente ristretti e discutibili) o ideologica.

Non è casuale che lo stesso Cane, nel riferirsi con marcato disprezzo nei confronti di Shorter (protagonista anche di un cospicuo numero di collaborazioni e incisioni considerate da alcuni marcatamente “eterodosse”, da Herbie Hancock ai Weather Report), alluda – nello stesso scritto (una recensione di un concerto del sassofonista) – alla direzione esotic-edonistic-onanistica di un’incisione di Miles Davis come In A Silent Way: le sperimentazioni del cosiddetto “periodo elettrico” di Miles Davis, a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, possono ben rappresentare, infatti, l’inizio di un periodo che aveva già avuto dei precursori, perché la preoccupazione di non “separare” il jazz dai suoi rapporti con il repertorio popolare ha toccato artisti diversi come James P. Johnson o Louis Jordan o, ancora, quegli interpreti che con il primo R&B, e in concomitanza con il declino delle grandi big-band, cercarono di tenere insieme una molteplicità di elementi in grado di garantire al jazz un pubblico più ampio.

L’interesse di Davis (e di altri artisti) a combinare l’improvvisazione di matrice jazzistica con il volume di suono, l’energia ritmica e i timbri elettrici del funk (soprattutto) e del rock difficilmente nasceva da una semplice volontà di “commercio” e “arricchimento” (lo stesso Davis avrebbe commentato nella sua autobiografia che egli non aveva mai pensato che il jazz potesse diventare a museum thing locked under glass like all other dead things, that were once considered artistic) quanto, assai più probabilmente, da una diversa idea della funzione sociale della musica improvvisata. A ben vedere, e considerate le dovute differenze, i “conservatori” identificatisi nel mainstream e, in anni più recenti, nella rilettura neoclassica (e venata di nazionalismo) dello hard bop praticata dai cosiddetti young lions, e i “progressisti” fautori dell’instabilità (e perciò del mutamento) permanente affermatasi con l’ala più radicale (ed oggi eminentemente europea) del movimento sorto con il free jazz, mantengono e condividono – per quanto con intenzioni diametralmente opposte – una visione forzosamente elitaria del jazz che, peraltro, trova pochi appigli nella storia di tale musica. I conservatori proiettano un’immagine del jazz come creatura fragile e necessaria di protezione all’interno di un recinto sacro e fortemente delimitato e protetto, i progressisti intendono estrapolare il jazz dalle sue radici più specificamente africano-americane per farne uno strumento dell’internazionalismo rivoluzionario, sotto il quale albergare le molte forme improvvisative che, nei più diversi contesti culturali, sono sorte dal jazz stesso. Curiosamente, in tale ambito le varie forme di crossover e di fusion hanno invece – per quanto non sempre ineccepibilmente – mantenuto il jazz, pur se in movimento, all’interno del contesto americano e/o africano-americano senza con questo articolare un programma politico (Wynton Marsalis, cogliendo le istanze di un intellettuale discutibile e discusso ma sopraffino come Stanley Crouch, in una conversazione con Eric Porter parlava apertamente di counter stereotypes of black inferiority and validate a legacy of African American cultural achievement) ma praticando comunque un costante abbattimento delle barriere razziali che negli anni Settanta erano ancora più forti di oggi negli Stati Uniti. Curiosamente ancora, sia i cosiddetti “conservatori” che i “progressisti” (continuiamo a denominarli così per pura comodità spicciola) tendono a attribuire al jazz – per motivi diversi – un ruolo ritagliato a imitazione della musica accademica europea, distaccandolo ancora di più dalle sue radici popolari: ambedue le categorie, che sono costretto per motivi di spazio a delineare sommariamente, esprimono giudizi diffidenti se non severi sulle sperimentazioni compiute fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, intendendo così stabilire in modi diversi un recinto sacro al cui interno viene posizionato il jazz, separato non solo da gran parte del suo passato folklorico e popolare, ma anche da buona parte di quella contemporaneità che a esso deve comunque non poco. La tradizionale inclusività fagocitante del jazz viene così ad essere limitata e indirizzata artificiosamente.

I rapporti del jazz con la molteplicità vernacolare e linguistica della cultura africano-americana e americana sono storicamente inestricabili: i tentativi di operare in un modo o nell’altro una conventio ad excludendum secondo schemi “in provetta” hanno, di fatto, fortemente condizionato la sua capacità di rivolgersi alla sua comunità storica e di allargarne i confini. Quello che taluni hanno denominato “commercializzazione” è, in non pochi casi, nient’altro che uno dei tanti aspetti comunitarî di quell’ambito che Guthrie Ramsey, Jr. denomina afro-modernismo (G. Ramsey, Jr., Race Music: Black Cultures from Bebop to Hip-Hop, University of California Press, Berkeley 2003), cioè quel complesso di tracce e percorsi attraverso i quali, nel corso della loro storia, gli africano-americani si sono espressi all’interno della cultura americana. Non è un caso, però, che lo stesso Ramsey guardi con indifferenza a certe sperimentazioni volte a riconnettere il jazz alla propria comunità: egli non nomina neanche pagine davisiane come In A Silent Way o Bitches Brew, reputando di gran lunga più significativa ed efficace come momento iconico per le comunità africano-americane degli anni Sessanta la pubblicazione nel 1968 del futuro inno del nazionalismo nero, Say It Loud di James Brown. La sua motivazione è presto detta e, in un certo senso, condanna all’oblìo quel jazz che si era reso di difficile accesso per le masse africano-americane: Brown’s decidedly ‘southern-flavored’ musical rhetoric galvanized African American communities, linking urban with rural, the North with the South, black revolutionaries with school children, militant, avant-garde artists with audiences possessing more ‘mainstream’ tastes. Il successo di James Brown è il successo di un artista che infrange le barriere fra arte e commercio, che rielabora le proprie radici popolari senza rinnegarle e che conquista il successo senza rinunciare alla propria identità storica, ma addirittura facendone il perno di un manifesto politico e razziale. Il che, a ben vedere, e checché ne pensi Ramsey, è l’operazione che, con minore successo popolare, conduce Miles Davis, aprendo la strada –fra l’altro- a nuovi modi, per gli improvvisatori africano-americani, di esporre e affermare la propria identità culturale. Egli, infatti, rinuncia a un tratto specifico della tradizionale fisionomia jazzistica, alla scomposizione e ricomposizione di materiali compositivi usati abitualmente (quali, ad esempio, gli standard) e sui quali si era costruita una prassi originale che contraddistingueva il jazz, e ne affermava l’identità africano-americana, anche per la sua capacità di manipolare, alterare, rinnovare, sovvertire il lessico e la sintassi della cultura dominante.

Non vi è dubbio che il nazionalismo africano-americano rappresentato da artisti quali Stanley Crouch e Wynton Marsalis, sottolineando gli aspetti più complessi e altamente sofisticati dell’improvvisazione jazzistica, ricusi nettamente l’inferiorità creativa e culturale degli africano-americani sostenuta dalle tesi tradizionali del razzismo. Così facendo, esso sembra altresì implicare che i materiali popolari dai quali il jazz ha tratto una non trascurabile parte della sua peculiare identità siano di minore rilevanza.

L’idea di una commistione con il rock (che, per quanto affondi parte delle sue radici nella tradizione africano-americana, è stato a lungo un linguaggio essenzialmente praticato da musicisti bianchi) non poteva e non può certo avere un ruolo accettabile per chi pratica, a torto o a ragione, una visione esclusivista e elitaria del jazz, distinta dalle sue origini popolari. La stessa visione eroica, epica e mitopoietica probabilmente avrebbe avuto non poche difficoltà a riconoscersi nella controcultura rappresentata da certo rock, nella rivoluzione sessuale, nell’uso di sostanze psichedeliche: il jazz condivide la problematica di altre strutture passate definitivamente e integralmente dal commercio e dell’intrattenimento all’arte più esoterica e intransigente. In tale contesto, chi beneficia di una qualunque forma di successo si trova in una posizione dominata, laddove si trova in un ruolo dominante chi, a torto o a ragione, non ha rapporti con la “popolarità”. Il che non sempre riflette i reali valori in campo.

L’uso di materiali e pratiche tratte dal rock, dal funk, dal soul, dall’hip hop è stato dunque avvertito come una violenta intrusione nel linguaggio del jazz, con una voluta indifferenza nei confronti di una storica e manifesta comunanza di radici. Avendo creato all’interno della cultura africano-americana un’artificiale gerarchia, alla cui cima stava ovviamente il jazz, ogni altro materiale non poteva che risultare di natura inferiore: non era più importante come tali materiali venissero elaborati, ma quali materiali potevano essere o meno accettati; in poche parole, la tradizione africano-americana s’è trovata ingiustificatamente a disprezzare sé stessa per l’imposizione di parametri esogeni, spesso eurocentrici per nascita e tendenti a svalutare o sottovalutare elementi estremamente significativi della sua costituzione. È interessante notare come gli alfieri del “conservatorismo”, così come quelli del “progressismo”, nell’analisi “in provetta” del jazz tendano a escludere un pensiero relazionale, cioè quel metodo che conduce a caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un sistema, dal quale deriva il suo senso e la sua funzione. Si trascurano molti degli aspetti che hanno caratterizzato l’eccezionalità anche violenta e drammatica dell’esperienza africano-americana e che, pure nell’articolazione di una struttura linguistica come il jazz, s’è spesso dovuta affidare ad un emergenziale senso pratico che di frequente lascia l’essenziale a livello implicito e che dà il via invece, sulla base dell’esperienza acquisita in pratica, a strategie “pratiche”, nel doppio senso di implicite, non teoriche, e di comodo, adeguate cioè alle esigenze e alle urgenze dell’azione. “Progressisti” e “conservatori” hanno volutamente insistito sull’”elevatezza” del “discorso” jazzistico, sottolineandone e sopravvalutandone la “complessità” e il virtuosismo (tecnico e linguistico): tutto ciò che non corrispondeva a tali tratti (per quanto la forza espressiva del jazz abbia fatto leva proprio sull’ibridazione e sul sincretismo, sulla capacità di elaborare con cospicua efficacia espressiva materiali anche volutamente semplici e flessibili) veniva perciò scartato (sebbene il jazz sia nato e cresciuto da una “poetica dello scarto”) come volgare, commerciale, gratuito, superfluo. Si sono così affermati dei criteri di esclusione che hanno di fatto chiuso e istituzionalizzato il jazz all’interno di un recinto sacro. Esso, a sua volta, ne ha escluso qualsiasi ulteriore sviluppo all’interno delle sue eredità popolari, per quanto logiche, pertinenti e tradizionali. È stata esercitata, da due versanti opposti, la stessa “violenza simbolica” (peraltro estesa al mondo dell’insegnamento, che nel jazz – non coincidentalmente – è diventato di primaria importanza), tesa alla gestione pratica e alla manipolazione, nonché alla devitalizzazione, di una cultura e delle sue elaborazioni. Per citare Pierre Bourdieu: Si è soliti dire che la cultura è una specie di codice comune a due locutori, che fa sì che i due locutori associno lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso senso; dunque la cultura è un medium di comunicazione, perché il linguaggio è un medium di comunicazione.
 Si può dire che a partire da una teoria della cultura o del linguaggio, o di qualsiasi altro strumento simbolico, si può elaborare una filosofia del consenso. Il consenso è il fatto di essere d’accordo sul codice di comunicazione. Ebbene, penso che la nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza simbolica è una dominazione che suppone un codice comune. E questo è importantissimo: la dominazione all’interno di una società si compie sulla base di un codice comune, nella misura in cui, attraverso il sistema di insegnamento, i dominati acquistano un minimo di accesso al codice culturale comune, che una forma di dominazione può esercitarsi su di loro (http://www.caffeeuropa.it/attualita01/131attualitabourdieu.html).

Come afferma più esplicitamente Tony Williams: You can’t make a definition of jazz. (…) Writers and scholars who didn’t play music came along and told people that this music was an art form. That’s fine, because that’s what many of the musicians wanted it to be regarded as. But what it did was to make everyone conscious of it as an art form. The same thing that happened to classical music almost happened to jazz; it almost became sterile with people playing only for very elite purposes. The approach was no longer human at times (in Tony Williams: Report on a Musical Lifetime, di Vernon Gibbs in “Downbeat” 43:2, 29 gennaio, 1976).

Quale tipo di “commercializzazione”, ad esempio, può essere attribuita a opere dense e indiscutibilmente complesse firmate da Miles Davis come In A Silent WayBitches Brew o On The Corner? Può forse essere comprensibile che un nazionalista africano-americano come Stanley Crouch veda in pericolo l’identità africano-americana del jazz e la sua primogenitura e supremazia idiomatica a causa della “contaminazione” con dei generi praticati soprattutto da bianchi. Ma, appurato che tale “contaminazione” avviene con dei generi in non piccola parte condizionati dalla tradizione musicale africano-americana, è ben difficile intravedere in determinati lavori davisiani degli anni Settanta un’inclinazione per la cultura dominante. In realtà, essi sembrano porsi agli antipodi di essa, rivendicando casomai l’originalità, la forza espressiva, la sofisticazione del contributo africano-americano. L’estetica che sembrano voler delineare è, per tanti versi, di gran lunga meno conciliante di quella a lungo tratteggiata in talune delle pagine raccolte in Round About Midnight o Kind of Blue o Porgy and Bess: si potrebbe perciò pensare che in qualche modo alterino il Canone sul quale il jazz ha delineato la propria identità. Ciò è in parte vero, perché a partire dagli anni Sessanta e dall’allargamento che alcuni esponenti del free jazz compiono del linguaggio “canonico” con l’inserimento sempre più frequente di elementi tratti da culture e tradizioni lontane dalla tradizione africana-americana, è difficile se non impossibile continuare a giudicare il jazz, e le musiche improvvisate che sempre più ne derivano, in base al Canone tradizionale delineatosi sino all’affermazione dello hard bop. Pena una strategia d’esclusione che non appartiene alla storia del jazz. Davis compie un’opera di aggiornamento che non si avvale della “normalizzazione” del mainstream e opera all’interno di un contesto linguistico che si fa volutamente senza frontiere ma che, al contempo, consacra, nella sua lucida “inclusività”, l’attualità del “modernismo” africano-americano, cogliendone l’essenza ben più dell’apparenza. Da versanti opposti, nella sua astrazione fatta di un caleidoscopio di colori, timbri e ritmi egli è ben più vicino al tribalismo e alla psichedelia articolata da Sun Ra, che non al dichiarato populismo coevo di Cannonball Adderley o di Charles Lloyd, che tendevano (come già aveva fatto intravedere il criticato trio di Ramsey Lewis o un gruppo altrettanto sottovalutato come i Jazz Crusaders) a una riappropriazione e a un’elaborazione più dichiarate e superficiali di radici popolari. Davis esplora materia ancestrale che riflette nella contemporaneità: egli sembra ripercorrere all’incontrario il percorso che ha dato vita alla cultura del cosiddetto Black Atlantic descritto da Paul Gilroy. Sembra azzardato definire “commerciale” (sempre che il termine “commerciale” debba necessariamente implicare valori negativi, il che è essenzialmente frutto di un’analisi parziale e claudicante di un contesto estremamente ampio) questo magma di suoni (Sometimes you run out of notes. The notes just disappear and you have to play a sound) che – resi scuri e oscuri dal cromatismo – ora si aggrumano, ora si liquefanno secondo uno schema non teleologico che pare semplicemente basarsi su di una telepatica forma di comunicazione fra i varî musicisti e che talvolta vanta una forma che si auto-struttura, si auto-rigenera e si autogestisce come per misterica partenogenesi,  e che non è semplicemente quella sbilencamente cucita nel caos da un produttore e compositore sofisticato come Teo Macero. Opere come In A Silent WayBitches BrewA Tribute to Jack JohnsonBig FunLive-EvilDark MagusPangæaAghartaOn The CornerGet Up With It fanno certamente riferimento alle radicali rielaborazioni del blues e del funk operate da artisti come Jimi Hendrix e Sly Stone (come provano l’evoluzione spiccatissima del ruolo del basso elettrico e della chitarra elettrica nelle mani, rispettivamente, di Michael Henderson e di Pete Cosey o John McLaughlin): il misterico e tribale work-in-progress come in una cosmica jam-session, la costruzione su frammenti disparati, apparentemente slegati e incongrui, l’uso dei riff, la fissità delle figurazioni del basso elettrico che assumono l’allucinata cadenza di un mantra ipnotico, la fisionomia drasticamente funky della sezione ritmica, i grumi di poliritmi, le dinamiche espressivamente estreme e il groove denso e propulsivo commentato e colorato liquidamente dalle tastiere elettriche (See, the Fender Rhodes has one sound and that sound is itself. (…) It didn’t have nothing to do with me just wanting to go electric, like a lot of people have said, just to be having some electrical shit up in my band. I just wanted that kind of voicing a Fender Rhodes [electric piano] give me that a regular piano couldn’t) appartiene incontestabilmente alla tradizione africano-americana e alle sue radici. Per certi versi, verrebbe persino da dire “nulla di nuovo sotto il sole” se la rilettura davisiana, così ferocemente logica nel suo riallaccio alla tradizione del Black Cosmos, non assumesse l’afflato lacerante di un William Blake trapiantato nella giungla d’asfalto. Mai la “poetica dello scarto” (che in questo caso sembra prefigurare anche l’arte africana di Dilomprizulike e di Abdoulaye Konate o le possenti silhouette di Kara Walker) aveva saputo assumere un ruolo così orgogliosamente “riassuntivo” (nel senso che può assumere, ad esempio, l’arte di Ellen Gallagher), inclusivo (anche etnicamente), simbolico, liberatorio e trasfigurato al contempo. Il che, ovviamente, non fa che sottolineare il traumatico distacco di Davis dalle consuetudini del mainstream consolidatesi con lo hard bop e che egli aveva già iniziato a infrangere in opere discografiche come SorcererNefertitiMiles in the SkyFilles de Kilimanjaro: la ricerca di un “eternal groove” lo avvicina maggiormente all’estetica che venivano sviluppando e mettendo a punto James Brown e George Clinton con i Parliament/Funkadelic.

Etichettare tale musica è sforzo probabilmente non necessario e poco utile. Altrettanto improprio parebbe attribuirle patenti di “commercialità”. L’equivoco sorto attorno alla sottovalutazione dell’opera davisiana negli anni Settanta avrebbe inevitabilmente condizionato ogni analisi equa e accurata dei fenomeni via via definiti jazz-rockcrossoverfusionpop-jazzsmooth jazz, condannati sin dalla nascita e senza processo.

Facile obiettare che poche opere scaturite da tali incroci linguistici e vernacolari hanno raggiunto la potenza immaginifica di quelle davisiane, ma è altrettanto vero che molte di esse sono state esaminate attraverso un’ottica eurocentrica eminentemente indifferente a fattori sociali e politici e persino commerciali. Realtà radicalmente differenti, rispondenti a criteri, tempi e contesti diversi, sono state accomunate in un unico giudizio monoliticamente negativo e indifferente persino a valutazioni tecniche e puramente “artigianali”: dallo sviluppo di cui ha beneficiato l’uso creativo degli strumenti elettrici (basterebbe pensare agli impasti timbrici di un gruppo come Weather Report o alle audaci sperimentazioni linguistiche di Ornette Coleman con Prime Time) all’evoluzione che ha contrassegnato, ad esempio, il linguaggio del basso elettrico all’apporto – in termini di composizioni e arrangiamenti – di un numero cospicuo di fortissime e inventive personalità. E se nell’acrobatico puzzle di stili e materiali cui ci ha abituati la disinibita e cinica voracità del post-moderno il rapporto fra informalità e reperti provenienti da virtuosistici contesti extra-istituzionali come – ad esempio – il thrash metal oggi può non suscitare sorpresa, è probabile che lo si debba anche alla progressiva transizione linguistica cui ci hanno esposto generi musicali che sono stati strumentalmente allontanati dalla storia della musica africano-americana.

Nel voler continuare a delineare un Canone dai parametri troppo rigidi ed “esclusivisti” anche dopo le nuove possibilità d’ampliamento del lessico offerte a partire dagli anni Sessanta, si è combattuta da più parti una battaglia contro l’alterità, la cui assimilazione è stata invece fra i cardini dell’estetica musicale africano-americana. Se da un lato gli anni Sessanta hanno inaugurato un sempre più intenso e duraturo dialogo con culture e tradizioni esogene rispetto al contesto del crogiolo linguistico americano (in tal senso viene da pensare a una sorta di successivo manifesto d’inclusività linguistica quale Science Fiction di Ornette Coleman), essi non hanno certo escluso un aggiornamento del tradizionale rapporto fra jazz e musiche popolari. Pare innegabile che l’iniziale periodo denominato jazz-rock, forse proprio perché drasticamente sottovalutato, sia stato seguito da una sorta di “normalizzazione” in cui si affermava uno stile musicale meno sperimentale e più formulaico che tendeva a enfatizzare progressioni armoniche più tradizionali, melodie diatoniche, regolarità strutturale, tempi in 4/4, la tradizionale successione di assolo fra l’esposizione e la riesposizione del tema, per quanto venisse mantenuto un grooveregolare ereditato dal funk o dal rock. Venivano a mancare gli esperimenti sul timbro, sulle tessiture, sulle forme complesse, sulle progressioni armoniche non funzionali e i tratti estesi d’improvvisazione. La ricchezza e la varietà ritmica e timbrica che caratterizzavano la ricerca di chitarristi come John McLaughlin e Pete Cosey cedevano il passo a una generazione di strumentisti ben più manierati e prevedibili come Robben Ford, Mike Stern, Larry Carlton, Lee Ritenour; l’imprevedibilità armonica e la sperimentazione timbrica di tastieristi come Joe Zawinul, Chick Corea, Herbie Hancock o Jan Hammer venivano sostituite da una routine armonica e da sintetizzatori che soprattutto tendevano a imitare il timbro e il fraseggio di taluni chitarristi; la logica architettonica e la sofisticazione dei complessi arrangiamenti  ideati da Chick Corea per alcune edizioni di Return to Forever lasciavano il posto a strutture consuete e regolari, a diatoniche melodie affabili, a schemi ripetitivi in cui il virtuosismo degli strumentisti era non di rado del tutto fine a sé stesso.  Una crisi innegabile, che aveva i suoi perché e che si era andata costruendo nel tempo.

Non piccola parte di quello che è stato definito fusion o, infine, smooth jazz ha voluto modellare l’uso dell’improvvisazione sugli schemi della canzone “pop”, sostituendo la voce umana con quella di un solista strumentale e creando un connubio fra strumentazione jazzistica, tecniche di produzione prelevate dal mondo dell’industria musicale e estetica di derivazione R&B nettamente africano-americana: non casualmente, il repertorio non consisteva di pagine di matrice jazzistica ma tendeva a ospitare anche rielaborazioni di materiali appartenenti al repertorio R&B. Laddove il solista in un contesto jazzistico tendeva a fare uso della forma e della struttura armonica di un lavoro come punto di partenza per la (ri)composizione istantanea, non di rado il solista nel contesto crossover tendeva a prodursi in una serie di abbellimenti, onde permettere la “riconoscibilità” del tema, soprattutto laddove si presentavano temi noti del repertorio R&B.

In un tale tipo di produzione veniva, ovviamente, a mancare in larga parte, l’interplay – tipico del contesto improvvisativo – fra i varî musicisti: gran parte dell’arrangiamento era inciso a parte, e i solisti sovraincidevano i loro contributi. Inoltre, il complesso orchestrale di supporto, che in genere era formato da un gruppo stabile che partecipava ad ogni incisione, era agli ordini del produttore: questi decideva arrangiatori e solisti e aveva un ruolo decisionale primario. Questo fu il modello in larga parte adottato da Creed Taylor, produttore indubbiamente intelligente che, prima alla Verve poi alla CTI (Creed Taylor, Inc.), seppe precorrere la cosiddetta fusion, creando un rapporto –peraltro più creativo e riuscito di quanto si voglia riconoscere- fra jazz e mercato che molti hanno sempre reputato impossibile.

Già Evan Eisenberg in The Recording Angel (Yale University Press, 1987), così come, in tempi più recenti, Mark Laver in Jazz Sells: Music, Marketing, and Meaning (Routledge, 2015), per non dimenticare –in un ambito più specifico- Scott DeVeaux in The Birth of Bebop (University of California Press, 1999) hanno dimostrato, fra i tanti, che l’idea del mercato non è mai stata estranea ai musicisti di jazz, neanche ai più radicali innovatori. E neanche questi ultimi hanno agito “contro” il mercato, adeguandovisi piuttosto ma in modo da non alterare la fisionomia della propria creatività: subtle changes in the entertainment industry (…) pulled like-minded musicians together into a new sense of community and purpose (DeVeaux, pag. 273). Ancora DeVeaux (pagg. 298-299) descrive un cruciale passaggio per l’accettazione del be bop: Before bebop could make its way into the recording studio, it had to become a viable commercial product. In its original Harlem setting, the new music, as yet unnamed (‘‘the music wasn’t called bop at Minton’s,’’ said Kenny Clarke, ‘‘we called ourselves modern’’), was uncommodified. Its distinctive idiosyncrasies—a loose, improvisatory format and an eclec- tic repertory of standards studded with harmonic obstacles—were tai- lored to the specialized requirements of professional musicians, who pursued their commercial ambitions through other, more public channels. For all the energy and imagination poured into these late-night sessions, no one (apart from the house band, which drew a very modest wage) expected to make any money from their efforts.

The commodification of bebop thus required a conscious commitment on the part of musicians to reorient the music to existing commercial channels. This process was set in motion early in the 1940s by the lure of public jam sessions and the nightclubs on 52nd Street, both of which put jam-session-style jazz on a profitable footing. It accelerated as the war years unexpectedly opened up new opportunities, further encour- aging young musicians to imagine using a novel idiom of their own invention as the means to achieve a degree of artistic and financial independence.

Along the way, the music would have to be deliberately transformed. The repertory would have to be converted into clearly defined economic units, preferably original compositions, for which authorship could be precisely established. The often chaotic atmosphere of the jam session would need to be streamlined and subtly redirected toward paying audiences. Reputation among musicians would have to be translated into commercial reputation, a name on a nightclub awning that would draw customers inside. The music would have to be given a label or tag, something akin to a brand name for marketing purposes.

Inevitably, something was lost and something was gained. Even if, as Miles Davis has insisted, ‘‘the real thing happened up in Harlem, at Minton’s,’’ black musicians needed to take the music outside of their own insular professional community to make it the basis of a career. Dizzy Gillespie, who saw this perhaps more clearly than anyone, spearheaded the transformation. With the Onyx Club combo settling for a long stay on 52nd Street, the process was well under way by early 1944. As Gillespie has explained: ‘‘Jamming at Minton’s and Monroe’s we had our fun, but with the level of music which we’d developed by 1944, it wasn’t very profitable, artistically or commercially. We needed to play to a wider audience and Fifty-second Street seemed ready to pay to hear someone playing something new.’’ (…) The audience for jazz was small but dedicated with a disproportionate representation of high school and college- age consumers, who were willing to pay premium prices for records that satisfied their tastes. Recording artists could be easily drawn from a pool of skilled freelancers working on 52nd Street, eager for a chance to record and willing to work for union scale. The flexible jam-session-style performance format precluded the need for expensive arrangements.

La combustibile miscela fra questioni culturali e razziali, produzione artistica, successo commerciale ed evoluzione di uno stile musicale gioca, dunque, un ruolo tutt’altro che trascurabile nella storia del jazz. Come nel caso di Creed Taylor, fondatore di un’etichetta discografica come la Impulse! (per la quale scritturò John Coltrane e produsse opere come Out of the Cool di Gil Evans, Blues and the Abstract Truth di Oliver Nelson, Genius + Soul = Jazz di Ray Charles) e produttore per lunghi anni presso la Verve e la A&M, dove cominciò a gettare le fondamenta per quello che potremmo definire il primo esempio consistente e pianificato di crossover music: prima con il successo di un album del 1964 come Getz/Gilberto (e altre produzioni analoghe che contribuirono in modo decisivo all’affermarsi della bossa nova presso il pubblico americano), poi con una serie di incisioni a nome di Wes Montgomery, in cui il chitarrista, spesso con il supporto di arrangiamenti firmati da Oliver Nelson, Johnny Pate, Claus Ogerman, Don Sebesky, affrontava anche un certo numero di “successi” popolari coevi (I decided that if people were going to hear Wes Montgomery, I would have to record him in a culturally acceptable context. Now I wasn’t particularly enamored of the idea of surrounding Wes with strings, but if that was a way of getting him known to more people, then that was the way it had to be). Dan Morgenstern – recensendo Down Here on the Ground (Down Beat, 27 giugno 1968, pag. 28) – coglie con acutezza almeno il senso esteriore della sofisticata operazione (Taylor, accennando a un “culturally acceptable context”, mostra di conoscere bene la difficoltà di penetrare la borghesia bianca americana da parte del jazz e della cultura africano-americana): This splendid album is, I guess, what the purists would call ‘commercial.’ That means, in the present case, that the selection of tunes is varied and tasteful, that the tracks are not overly long, that arrangements have been thoughtfully crafted, that excellent musicians have been provided to interpret them and back the featured artist, that the music has been carefully recorded and mastered, and the packaging is handsome. (Take the opposite of almost all these ingredients and you’ll have a pretty good description of what some people consider honest, untainted ‘art.’) At the risk of being labeled a middle-brow philistine, I’ll take the commercial concept. You see I believe in communication.

L’approccio viene replicato e esteso negli anni Settanta grazie al successo di alcune produzioni con il chitarrista George Benson (Shape of Things To ComeTell It Like It IsThe Other Side of Abbey Road, quest’ultimo inciso a sole tre settimana dall’album Abbey Road dei Beatles), poi passato alla CTI, dove si afferma definitivamente grazie a lavori discografici quali Beyond The Blue HorizonWhite RabbitBody TalkBad BensonGood King BadBenson & Farrell.

Taylor credeva alla possibilità di “allargare” il pubblico del jazz (in effetti, non poche fra le sue incisioni per la Verve, la A&M e la CTI scaleranno più volte le vette delle classifiche americane), puntando eminentemente su una rivisitazione esplicitamente “funky” del cosiddetto soul-jazz (sempre interessanti quando non addirittura memorabili furono, in effetti, talune incisioni a nome di Freddie Hubbard quali Red ClayStraight LifeFirst LightSky DiveKeep Your Soul Together, per tacere di lavori con Stanley Turrentine quali SugarCherrySalt SongDon’t Mess With Mr. T e con Milt Jackson) e su di un connubio – certamente e coscientemente patinato – fra pagine popolari e rilettura semi-improvvisata (in non poche incisioni della CTI l’arrangiamento – quasi sempre di eccellente fattura – aveva spesso un ruolo preponderante rispetto al solismo) in cui giocavano un ruolo molteplici linguaggi popolari correnti, dal rock al R&B, sottoposti ad un processo di astuta “jazzificazione”. La critica s’è limitata a stigmatizzare l’operato di Creed Taylor: esso andrebbe invece studiato più approfonditamente per le sue interessanti strategie linguistiche. Ché egli crea a suo modo un vernacolo-contenitore (che rimarrà una sorta di “marchio” della CTI) partendo, a sua volta, da un linguaggio incline a fagocitare e rielaborare una molteplicità di materiali. Attribuendo al jazz il “tocco di Mida”, egli stimola una serie di artisti e, soprattutto, di arrangiatori (fra i quali spicca il sottovalutato e incompreso Don Sebesky) a rielaborare le “nouvelle vague” popolari con il “suono” e il “lessico” del jazz: un’operazione che dà vita a uno scaltro, curioso e spesso sofisticato e ambiguo prêt-à-porter musicale fortemente, inconfondibilmente americano. Il jazz, nel suo côté funky più vistosamente attraente e popolare, diventa il vestito intrigante, ammiccante, provocante di un repertorio di regola alieno alla media borghesia adulta. Vi è nelle produzioni della CTI un aspetto nascosto che è irriverente, sexy, ancheggiante e disinibito (e che traspare anche dall’allusivo edonismo di talune copertine): una trasgressione accuratamente pesata, misurata, pensata e “cucita” per un pubblico borghese che potesse dirsi sofisticato pur apprezzando un repertorio popolare. Quest’ultimo viene così “spogliato” della sua facile immediatezza per indossare delle vesti, “firmate” e create ad hoc, che permettono un ingresso a meno accessibili classi sociali: il jazz diventa il tramite per questa scaltra “scalata sociale”, pur mantenendo – in un astutissimo sfruttamento del borghese “senso del peccato” – taluni suoi aspetti “stradaioli” come la concezione ritmica marcatamente “corporea”. Vanno lette in tale contesto, ad esempio, le (re)interpretazioni di pagine accademiche (o il loro malizioso inverso: pagine “pop” rilette e “ripulite” “classicamente”) affidate al flautista Hubert Laws in lavori discografici quali Cryin’ SongAfro-ClassicThe Rite of SpringCarnegie Hall o quelle del tutto disinibite, esuberanti, compiacenti e irridentemente guascone ma realizzate attraverso un sontuoso artigianato ricco di una pletora di eccellenti musicisti (da Billy Cobham e Ron Carter a Stanley Clarke e John Tropea) che Eumir Deodato (ri)elabora e arrangia in Prelude e Deodato 2Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss, Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy, Rhapsody in Blue di Gershwin, Pavane pour une infante défunte di Ravel diventano successi planetari attraverso un’astuta fusione fra jazz, influenze latine, funk e rock che “disinnesca” qualsiasi potenziale “trasgressivo” dei varî generi e ne fa una sorta di “esperanto” accessibile a quel pubblico che lasciatesi alle spalle le “infrazioni” giovanili riesce così a portarne comunque un ricordo accuratamente depurato nel fare il proprio ingresso nella “normalizzazione” della borghesia. Così accade, ad esempio, per alcune realizzazioni di Bob James quali OneTwoThree e BJ4. Ed è interessante notare come l’operazione condotta da Taylor fosse – ben al contrario di come l’avrebbe interpretata una critica in fondo culturalmente sprovveduta – tutta intellettuale nel suo contrabbandare e sdoganare il jazz come linguaggio sofisticato corrente (ma trasgressivo) alla giovane borghesia bianca proveniente dalla rivoluzione culturale del ’68 e poco incline ad accettare supinamente le icone culturali genitoriali. Difficile non notare un risvolto affatto speculare nell’ascesa dell’ECM presso il ben diverso contesto della borghesia europea a partire dagli anni Settanta.

Il successo della CTI (che comunque portò all’attenzione del pubblico statunitense il jazz come possibile linguaggio corrente della quotidianità americana, nonché alcuni esponenti del jazz – come Freddie Hubbard – sino ad allora apprezzati solo da una ristretta cerchia di appassionati) fu sicuramente favorito dall’uso, da parte di Creed Taylor, di musicisti comunque di elevata caratura (da Freddie Hubbard a Herbie Hancock, da Keith Jarrett a Gabor Szabo, da Ron Carter a Chet Baker o Jim Hall, da Cedar Walton a Jimmy Heath, da Randy Weston a Chick Corea) che, in taluni casi, seppero mostrarsi particolarmente inventivi anche in un ambito apparentemente e accuratamente circoscritto: vien da pensare, oltre alle già citate incisioni di Freddie Hubbard, a Paul Desmond (SkylarkPure Desmond), al gravemente sottovalutato Joe Farrell (Joe Farrell QuartetOutbackMoon GermsUpon This RockPenny ArcadeCanned Funk), a Milt Jackson (GoodbyeSunflowerOlinga) e a un altro sottovalutato la cui produzione musicale è comunque diventata per alcuni l’epitome del futuro smooth jazz: Grover Washington, Jr.

Il caso di Grover Washington è emblematico: una lettura “ideologica” del jazz (in senso indifferentemente “conservatore” o “progressista”) ha letteralmente “bollato” negativamente l’opera di un artista tutt’altro che conciliante, banale o votato solo al commercio.

Washington era già un apprezzato sideman (Charles Earland, Boogaloo Joe Jones, Melvin Sparks, Johnny “Hammond” Smith) quando nel settembre 1971 sostituisce Hank Crawford in una seduta d’incisione che porta alla realizzazione di Inner City Blues. Come lo stesso titolo rivela, l’album s’incentra su una composizione di Marvin Gaye: in realtà, un’altra pagina dello stesso autore vi compare, Mercy Mercy Me (The Ecology, oltre a un’interpretazione di Ain’t No Sunshine di Bill Withers. Tutto parrebbe rientrare nella norma di una rilettura di alcune pagine popolari. In realtà, fino ad allora rientrava nella consuetudine l’incisione di pagine “pop” appartenenti al mainstream della musica popolare bianca, si trattasse dei Beatles o dei The Mamas & The Papas: per quanto la Motown non promuovesse di regola artisti manifestamente impegnati in attività politiche, la scelta di rileggere lavori di un loro autore popolare africano-americano di successo e comunque legato a un’immagine attivamente progressista non poteva dirsi scontata, soprattutto considerando che l’album di Washington viene intitolato proprio secondo la pagina allora più impegnata politicamente di Gaye. Con fine intuito (politico e commerciale), Taylor coglie il mutamento dei tempi e anch’egli fa “parlare” il jazz ad un pubblico popolare così come, a pochi anni dalla fine della segregazione, gli artisti africano-americani popolari (si pensi ancora a Marvin Gaye con What’s Going On, a Curtis Mayfield con Super Fly o a Stevie Wonder con Innervisions) parlano apertamente e criticamente delle problematiche non solo degli africano-americani ma degli americani tout court. Un commento di George Benson dimostra quanto le concezioni di Taylor potessero apparire controcorrente: I’ve found that the most unbeatable recording combination is black musicians recording white people’s music, but playing it black. (…) A black man playing black music will not sell as well (Robert Yelin, “George Benson: ‘Playing White Man’s Music, But Playing it Black,’” Guitar Player, Gennaio 1974, pag. 23).

L’approccio profondamente lirico, persino romanticamente sentimentale (ma senza ombra di sentimentalismo) di Washington, il suo manifesto senso del blues, la sua conoscenza della tradizione musicale popolare africano-americana, la sua robusta tecnica strumentale (al tenore come al soprano e al contralto), la sua capacità di essere idiomatico in più ambiti linguistici e stilistici vengono premiati da un vasto successo grazie a lavori discografici quali All The King’s HorsesSoul Box e, soprattutto, Mister MagicFeels So GoodA Secret Place e Live At The Bijou, tutti prodotti da Taylor (in seguito il sassofonista proseguirà la sua carriera incidendo per la Motown, l’Elektra, la Columbia). In un momento storico in cui il coltranismo permea di sé e della sua indagine cosmica la musica improvvisata africano-americana, Washington sembra ripresentare un’introspezione lirica, derivata da Lester Young, che affronta sotto un inaspettato quanto elegante profilo poetico l’estetica contemporanea del R&B. Il connubio fra repertorio “pop”, materiali R&B, standard e improvvisazione jazzistica (quest’ultima di gran lunga più apparente nelle sue presentazioni dal vivo) sembra farne un interprete enciclopedicamente commerciale che per compiacere il grande pubblico tradisce la propria identità di appartenente a una musica che, comunque, è nata nell’ostilità del sistema e contro il sistema ha affermato le proprie originalità e vitalità. Se accantoniamo gli stereotipi che gli approcci ideologici hanno imposto – a torto e a ragione, nel bene e nel male – alla storia delle molteplici vicende del jazz, non è difficile notare che l’ascesa di un artista come Grover Washington coincide con la crescita – dopo la fine della segregazione razziale nel 1964 – della middle class africano-americana. Lo “scavallamento” di generi che compie Grover Washington riflette la metafora dell’abbattimento di una serie di steccati (e di abitudini) esistenti anche in ambito culturale: il crossover negozia e realizza un compromesso, priva il jazz, come dice il nome (smooth può significare “liscio”, “levigato”, “fluido”, “calmo”), delle sue asperità e asprezze (bagaglio indispensabile invece per quegli artisti che attraverso la musica improvvisata comunicavano profondi drammi e disagi sociali), ne mantiene alcune pratiche non necessariamente sovversive e si rivolge aldilà della comunità africano-americana, di cui presenta e diffonde un’immagine dialogante e rassicurante che comunque non rinuncia a veicolare più implicitamente le sue diverse realtà e cicatrici. Un atto, se vogliamo, di cruda realpolitik, forse persino una resa di fronte allo choc causato dall’incalzare di nuove condizioni esistenziali che scardinavano quelle certezze, quelle ambigue e inquiete sicurezze, quelle forme di ordinaria rassegnazione che comunque si formano anche nell’abitudine al perpetuarsi apparentemente immutabile del peggio.  Un atto criticabile, ovviamente, ma che è necessario analizzare approfonditamente prima di emettere giudizi, sia liquidatorî o assolutorî. Il successo popolare e economico di Grover Washington è il successo e l’integrazione (sicuramente illusoria) nell’American Dream cui aspira storicamente, fra prolungate, tragiche e dolorose delusioni, la comunità africano-americana e, naturalmente, la sua classe media. Condannare l’arte di Washington (ignorandone l’indiscutibile valenza idiomatica) significa condannare la classe media africano-americana in toto e espellerla dalla sua comunità di appartenenza, significa voler catalogare negativamente e senza sfumature la sua esistenza e la realtà che essa rappresenta. Ciò non significa che certi generi e sotto-generi non abbiano sofferto di una molteplicità di forme di sfruttamento, di condannabile ed esecrabile commercializzazione o di mediocre, ambigua e compiacente routine (che, ad esempio, caratterizza una parte cospicua del cosiddetto smooth jazz sviluppatosi negli ultimi due decenni), ma un’esclusione aprioristica riporta e soprattutto ha riportato ad un ambiguo paternalismo che, da più versanti e per diverse motivazioni, ha voluto dettare -partendo da pregiudizi, preconcetti e teorie precostruite – cosa potesse e dovesse essere considerato degnamente africano-americano e cosa no, cosa potesse degnamente essere inserito nell’arte africano-americana e cosa no.

La categorica, assolutista e indifferenziata condanna di determinate manifestazioni in base a parametri spesso del tutto esogeni alla cultura africano-americana e alle sue tradizioni, ha finito per condannare un cospicuo numero di opere e artisti, impedendone la valutazione oggettiva, l’apprezzamento, l’adeguata collocazione. Fra etichette discutibili come jazz-rock, crossoverfusionsmooth jazz, s’è creato un limbo (o forse un purgatorio più punitivo del consueto) in cui sono state collocate realtà diversissime fra di loro (che si trattasse di impresentabili alfieri del commercio e del compromesso al ribasso o di sperimentatori interessati alle fratture aperte dai tempi di crisi e di transizioni) e di cui sono stati ignorati o sottovalutati taluni significativi contributi, efficacemente già sepolti dall’industria culturale che, ovviamente, prediligeva ben altro.  A dimostrazione che ciò che denominiamo jazz è una realtà quasi incalcolabilmente vasta, sofisticata, ramificata e complessa, la cui comprensione è ancora abbondantemente e lamentevolmente incompleta, spesso alterata e viziata. Una realtà quasi tutta ancora da scoprire, narrare e interpretare.

(Gianni Morelenbaum Gualberto)

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[...] tal proposito suggerirei di rileggersi un interessante saggio sul tema pubblicato tempo fa dal sito Free Fall Jazz e a firma Gianni M. Gualberto, in cui si cerca di spiegare il fenomeno in termini meno superficiali e approssimativi di quanto [...]