FREE FALL JAZZ

Quanti articoli abbiamo letto, e si leggeranno ancora, sul periodo elettrico di Miles Davis? Una marea, destinata col tempo a crescere sempre più. Questo sebbene la maggior parte degli articoli in questione caschi in due categorie precise, ovvero la lista degli aneddoti relativi alle registrazioni di ‘Bitches Brew’ (assicurandosi di nominare Hendrix e il festival di Woodstock almeno una volta), oppure l’inquadramento di questo periodo all’interno di un non meglio specificato percorso di elevazione – verso una qualche avanguardia, verso il rock più soporifero e velleitario, verso entrambi, l’importante è chiarire come il jazz fosse ormai alle spalle di Miles Davis, intenzionato a non voler fare più quella roba da negri. Sono luoghi comuni ormai incrostati, soprattutto quando provengono dalla sponda del rock. Già, il rock, quella musica che io stesso amo moltissimo (e non sono l’unico, qui dentro). Tanti appassionati rocker, come già sviscerato qui sopra tempo fa, passano al jazz credendosi “già imparati” e snobbando tutto ciò che vada al di sotto di una soglia minima di complessità e avanguardismo, di solito stabilita con criteri riassumibili in “deve essere elitario e respingere l’ascoltatore comune”. Di conseguenza traghettano dal rock al Davis elettrico ignorando o snobbando del tutto quello acustico, reputandolo spesso e volentieri propedeutico a ‘Bitches Brew’ che sarebbe emerso dalla fronte di Zeus come Pallade Atena.

Le cose stanno diversamente, ma la genesi di quel disco non è scopo di questo articolo. Piuttosto, val la pena considerare il periodo elettrico, anzi, il Primo Periodo Elettrico (da ‘Miles In The Sky’ del 1968 alla doppietta ‘Agharta’ e ‘Pangea’ del 1975), come un volume ben preciso, articolato nei vari dischi-capitoli, dell’esperienza di Davis. Un volume che si connette col passato, visto che estremizza aspetti cardine dell’estetica del trombettista di Alton: la semplificazione dell’armonia, quasi fino alla dissoluzione, l’enfasi sulla melodia e la libera associazione di idee melodiche, il ritmo come motore centrale, l’attenzione ai dettagli timbrici individuali e di gruppo. E’ noto come la moglie Betty Mabry fece conoscere al marito le più recenti tendenze della musica preferita dai giovani neri dell’epoca: il funk e il soul, filiazioni naturali della musica di Muddy Waters, Otis Spann e compagnia. Negli anni ’60 della contestazione e dei movimenti giovanili, la musica faceva da collante comunitario e megafono. Ma sebbene la gioventù bianca e quella nera condividessero parte degli obiettivi, non condividevano quasi per niente i portavoce: il rock era a tutti gli effetti musica dei giovani bianchi, per i fratelli neri c’erano idoli come James Brown, gli Impressions, Sly Stone, Dyke & The Blazers, Marvin Gaye, Percy Sledge, Al Green e molti altri. Davis prese spunto da tutti costoro (Brown e Stone su tutti) per elaborare un concetto innovativo di Musica Nera Totale rivolta alla “sua” gioventù, senza curarsi degli eroi della musica rock che disprezzava profondamente – dal suo punto di vista, si trattava di ladri ignoranti che scippavano una cultura che non gli apparteneva rivendendola, opportunamente annacquata, ad un pubblico altrettanto ignorante. Del resto è davvero difficile immaginare Miles Davis commosso per i Beatles, i Buffalo Springfield, Joan Baez o gli Who. Non era la sua musica, non gli interessava, non aveva gli stessi presupposti e non parlava, come abbiamo visto, al pubblico nero. L’unico musicista della generazione di Woodstock ammirato da Davis era Jimi Hendrix, perché portava avanti la storia della black music, aggiornandola senza svilirla.

Tornando al 1968 di ‘Miles In The Sky’, ci possiamo soffermare su ‘Stuff’ per vedere i principi fondanti della nuova direzione: la figura ritmica “cantata” dal basso e accompagnata dalla batteria diventa il cuore del brano e il centro dell’intero gruppo, secondo una procedura tipica del funk, così come l’accento sul backbeat e il relativo groove, a scapito del tema enunciato dai fiati in classico stile hard bop (che comunque non manca). Compaiono per la prima volta piano e basso elettrici (la chitarra di George Benson sarà ospite della sola ‘Paraphernalia’), a testimonianza dell’interesse per nuove possibilità timbriche. ‘Stuff’ dura quasi venti minuti, così come molto lunghe e prive di motivi facili saranno gran parte delle composizioni dei dischi successivi: certo che Miles Davis doveva avere un’idea ben singolare di “disco commerciale” e “svendersi”! In questo senso, il grande successo di ‘Bitches Brew’ è una vistosa eccezione, comprensibile nell’ottica di un pubblico ricettivo e di una promozione più centrata (a differenza di tutti gli album successivi). A partire da ‘In A Silent Way’ comincia pure un modo del tutto nuovo e originale di concepire il disco jazz. La band suona per ore in studio seguendo le indicazioni del leader, il materiale viene poi editato in studio da Davis e Teo Macero fino ad una forma definitiva e inaspettata. Lo studio diventa un ulteriore strumento, ma in maniera molto diversa da quanto facevano Beach Boys e Beatles nelle loro stratificazioni di suoni e arrangiamenti. Davis e Macero sembrano piuttosto anticipare il lavoro dei produttori hip-hop. E la cosa ha un senso perfetto, molto più che cercare pretestuosi legami con i Pink Floyd o con le suite del prog rock, per tutti i motivi elencati prima. Come se poi non fosse già evidente all’orecchio! Il fatto poi che per ‘On The Corner’ Davis avesse messo in pratica alcune idee lette in un articolo di Karlheinz Stockhausen fa parlare più spesso di quest’ultimo che della cosa più importante: quel disco avveniristico conteneva in sè i prodromi dei quarant’anni successivi di musica popolare nera.

Vale la pena di ricordare, infine, come dal vivo le varie band di Miles Davis si attenessero agli stessi principi, seguendo di volta in volta l’orchestrazione in tempo reale escogitata dal trombettista su una piramide di ritmi ancorati a terra da un basso funk implacabile. Blacknuss, avrebbe detto Rashaan Roland Kirk.
(Negrodeath)

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