FREE FALL JAZZ

jazz rock's Articles

Questo breve testo nasce da una serie di incomplete annotazioni sull’accoglienza riservata ad alcune strutture linguistiche nate in seno al jazz ma annoverate e criticate come spurie. Trattasi, perciò, di nient’altro che spunti e frammenti che verranno approfonditi in altro scritto.

Mi sono di recente trovato a rileggere un lontano scritto di Franco Pecori pubblicato da Jazz From Italy nella sua pagina Facebook: Nessun’arte, e nemmeno la musica, è mai pura; questo è un equivoco idealistico. Altrimenti, non si capirebbe la nascita e la relativa fioritura della dodecafonia proprio nella Vienna degli anni tra le due guerre; e neanche si capirebbe l’esplosione del free negli anni Sessanta, in un tipo di società impostata sull’imperialismo economico, seriamente minata dall’alienazione dei consumi e lacerata da profondi contrasti razziali. Mi ha provocato non poche perplessità l’idea di “inevitabilità” (un sotto-prodotto del progresso in senso marxiano), come se, in fondo, esista un Fato (o una giustizia storica o una qualsiasi logica ferrea e stringente) che cerchi di controbilanciare con le sue azioni altre azioni ancora, prodotte da se stesso o da un altro Fato avverso, o da altra logica umana o cosmica. (Continua a leggere)

Nello scenario italiano degli anni ’70 si muovevano pure gli Sway, formazione capitanata dal bravo Sante Palumbo (piano e piano elettrico) che esplorava alcune delle sonorità jazz più popolari del tempo con umiltà e passione, senza timori riverenziali. Assime a lui troviamo il contrabbassista Marco Ratti, il batterista Lino Liguori, il chitarrista Sergio Farina e il sassofonista/flautista argentino Hugo Heredia; nel loro primo e unico disco, uscito originariamente per la microscopica Cipiti e solo recentemente ristampato da Markuee, gli Sway incrociano il linguaggio del jazz elettrico con quello di certo rock progressivo, genere popolarissimo in Italia su cui si sono formati centinaia di musicisti. (Continua a leggere)

Che il secondo disco di Caterina Palazzi e del suo progetto Sudoku Killer avrebbe toccato sonorità più vicine al rock lo si intuiva già dai nuovi pezzi che stanno suonando dal vivo da un paio d’anni, dunque ascoltare l’ottimo teaser diffuso ieri in rete suona come una conferma piuttosto che una sorpresa. L’uscita è tra un mesetto circa (Gennaio 2015), ma questo già lo si sapeva. (Continua a leggere)

Tra le note di copertina, uno stralcio di recensione dell’epoca dipinge i Bass Tone Trap come “la Art Ensemble Of Chicago che suona canzoni pop scritte da Ornette Coleman”, definizione che strappa un sorriso e di sicuro incuriosisce. Piccola mosca bianca all’interno del panorama inglese, il sestetto sheffieldiano nasceva dalle ceneri degli ostici De Tian, autori di un unico EP (‘Two Spires Split’) dalle forti tendenze avanguardistiche. Concluso quel progetto, Paul Shaft (contrabbasso) e Martin Archer (polistrumentista) restarono uniti, coltivando l’intenzione di virare verso sonorità più immediate: è la genesi di una storia tanto breve quanto intensa.

‘Trapping’ viene registrato nel 1983 ed è particolare sin dalla formazione, che schiera in campo due chitarre, la sezione ritmica e due sax (uno ad opera del funambolo Derek Saw, che si cimenta anche coi clarinetti, e uno ad opera di Archer stesso, che si dedica pure ad organo e violino). La musica è una miscela di jazz, rock e funk altrettanto anomala, specie perché di albionico, pur lasciando trasparire un certo amore di fondo per i Soft Machine, ha davvero ben poco, preferendo semmai guardare oltreoceano. (Continua a leggere)

Che Bearzatti in fondo al cuore fosse un rockettaro lo si era capito già ai tempi del progetto Sax Pistols, corroborato per giunta da dichiarazioni d’amore esplicite (“Ho iniziato a suonare il sax cercando di imitare con esso i miei idoli della chitarra elettrica” confessava pressappoco – vado a memoria – in qualche intervista).

Il progetto Monk’N'Roll, portato sul palco a partire dallo scorso anno per celebrare il trentennale della scomparsa del leggendario pianista, si inserisce a sorpresa in questa scia. La formazione è quella già apprezzata su ‘X (Suite For Malcolm)’, ossia Bearzatti al sax, Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso e Zeno De Rossi alla batteria,  e la scaletta mischia classici di Monk a classici del rock che vanno dagli AC/DC ai Led Zeppelin passando per i Police, spesso fondendo le due cose in un unico pezzo.

Martedì 5 Marzo la sempre ottima Radio 3 trasmetterà il concerto del quartetto registrato lo scorso 28 giugno a Udine (a Piazzale Del Castello, per la precisione) per la rassegna Udin&Jazz. Il tutto, come sempre, ascoltabile in FM, in streaming o tramite decoder digitale terrestre.

Noi intanto vi lasciamo con Bearzatti e soci alle prese con ‘Back In Black’.

C’era una puntata di Beverly Hills 90210 in cui al Peach Pit (per i profani all’ascolto: il locale dove quei figuri usavano intrattenersi) veniva installata dell’apparecchiatura per il karaoke, e per tutta la durata dell’episodio i protagonisti “ggiovani” perculavano allegramente il “matusa” signor Walsh, che si ostinava a salire sul palchetto per cantare con inscalfibile stoicismo un pezzo che alle orecchie di quegli adolescenti dal capello impomatato suonava “giurassico” anzichenò: ‘Doo Wah Diddy Diddy’ nella versione dei Manfred Mann. Ovviamente dopo un’ora di risatine arrivava il finale “volemose bbene” e tutti insieme, ggiovani e matusa, a cantare “There she was just walkin’ down the street…”: un tale trauma che ancora oggi, quando sento nominare i Manfred Mann, la prima immagine che mi viene in mente raffigura il padre di Brenda e Brandon Walsh al karaoke.

I Manfred Mann prendevano il nome dal loro omonimo leader/tastierista d’origine sudafricana, e nella prima metà degli anni ’60 riuscirono a vendere qualche palata di dischi con un sound a metà strada tra pop zuccheroso e rhythm’n’blues, tuttavia il loro legame con la musica che normalmente trattiamo su queste pagine è più saldo di quanto si possa pensare. (Continua a leggere)