FREE FALL JAZZ

Jack Bruce's Articles

C’era una puntata di Beverly Hills 90210 in cui al Peach Pit (per i profani all’ascolto: il locale dove quei figuri usavano intrattenersi) veniva installata dell’apparecchiatura per il karaoke, e per tutta la durata dell’episodio i protagonisti “ggiovani” perculavano allegramente il “matusa” signor Walsh, che si ostinava a salire sul palchetto per cantare con inscalfibile stoicismo un pezzo che alle orecchie di quegli adolescenti dal capello impomatato suonava “giurassico” anzichenò: ‘Doo Wah Diddy Diddy’ nella versione dei Manfred Mann. Ovviamente dopo un’ora di risatine arrivava il finale “volemose bbene” e tutti insieme, ggiovani e matusa, a cantare “There she was just walkin’ down the street…”: un tale trauma che ancora oggi, quando sento nominare i Manfred Mann, la prima immagine che mi viene in mente raffigura il padre di Brenda e Brandon Walsh al karaoke.

I Manfred Mann prendevano il nome dal loro omonimo leader/tastierista d’origine sudafricana, e nella prima metà degli anni ’60 riuscirono a vendere qualche palata di dischi con un sound a metà strada tra pop zuccheroso e rhythm’n’blues, tuttavia il loro legame con la musica che normalmente trattiamo su queste pagine è più saldo di quanto si possa pensare. (Continua a leggere)

Per “protesta” non userò più di 200 parole.

Mi sta benissimo che qualcuno cerchi di rendere omaggio a Tony Williams, uno dei primi a voler sfumare la linea di confine tra due generi allora ritenuti antipodici come jazz e rock, ma che negli anni è stato talvolta ingenerosamente (e superficialmente) liquidato come Billy Cobham del discount.

Ancora meglio se negli Spectrum Road troviamo uno che con Williams ha scritto pagine importanti, Jack Bruce, e gente degna di stima e devozione come Vernon Reid e Cindy Blackman (il cui ‘Telepathy’ resta per me una delle migliori espressioni post-bop degli anni ‘90), che – con il tastierista John Medeski a chiudere il quadrilatero – si cimentano con un repertorio che attinge dai Tony Williams Lifetime.

Le nuove versioni suonano “gonfiate”, c’è “più tutto”: più volume, più note (autentiche cascate: Vernon Reid, brutto dirlo, a tratti sembra voler fare a gara a chi la fa più lontano con gli originali di McLaughlin), più elettricità. ‘Spectrum Road’, in sostanza, sembra un disco fusion virato prog metal, roba buona per fare colpo su ascoltatori facilmente impressionabili e affascinati dal numero ad effetto.

Qualcosa di piacevole si trova pure, il punto è che spesso less is more. Loro però fanno gli gnorri. (Nico Toscani)