FREE FALL JAZZ

C’era una puntata di Beverly Hills 90210 in cui al Peach Pit (per i profani all’ascolto: il locale dove quei figuri usavano intrattenersi) veniva installata dell’apparecchiatura per il karaoke, e per tutta la durata dell’episodio i protagonisti “ggiovani” perculavano allegramente il “matusa” signor Walsh, che si ostinava a salire sul palchetto per cantare con inscalfibile stoicismo un pezzo che alle orecchie di quegli adolescenti dal capello impomatato suonava “giurassico” anzichenò: ‘Doo Wah Diddy Diddy’ nella versione dei Manfred Mann. Ovviamente dopo un’ora di risatine arrivava il finale “volemose bbene” e tutti insieme, ggiovani e matusa, a cantare “There she was just walkin’ down the street…”: un tale trauma che ancora oggi, quando sento nominare i Manfred Mann, la prima immagine che mi viene in mente raffigura il padre di Brenda e Brandon Walsh al karaoke.

I Manfred Mann prendevano il nome dal loro omonimo leader/tastierista d’origine sudafricana, e nella prima metà degli anni ’60 riuscirono a vendere qualche palata di dischi con un sound a metà strada tra pop zuccheroso e rhythm’n’blues, tuttavia il loro legame con la musica che normalmente trattiamo su queste pagine è più saldo di quanto si possa pensare. Nell’Inghilterra di quel periodo infatti non era per nulla inusuale imbattersi in personaggi che, pur suonando pop, blues, finanche rock, si professassero grandi appassionati di jazz. Vengono in mente i Gentle Giant, con i fratelli Shulman, figli di un trombettista, che non hanno mai fatto mistero di essere cresciuti a pane e bebop, ma l’esempio più clamoroso è forse di qualche anno prima, ossia i Blues Incorporated di Alexis Korner, nelle cui fila passò gente come Graham Bond (la cui Organization farà da culla a John McLaughlin), il compianto sassofonista Dick Heckstall-Smith (che si divertirà a fondere rock e jazz coi meravigliosi Colosseum, prima di avviarsi a una sottovalutata carriera solista di cui pure vi parleremo), addirittura Charlie Watts degli Stones (un altro che non ha mai nascosto il proprio amore per il jazz) e la futura sezione ritmica dei Cream, Ginger Baker e Jack Bruce.

È proprio quest’ultimo la chiave della nostra storia, ma andiamo con ordine. Se Manfred Mann e il suo gruppo trionfavano in classifica con ritornelli pop facili e immediati, spesso i loro album o le facciate B dei singoli ospitavano pezzi blues (‘Got My Mojo Working’, ‘Hoochie Koochie Man’, ‘Smokestack Lightning’) e jam strumentali. La passione jazzistica veniva fuori di tanto in tanto con qualche strizzata d’occhio, ma già la prima dichiarazione d’amore esplicita fu memorabile: una vitaminica rilettura di ‘Sack O’Woe’di Cannonball Adderley contenuta sull’esordio a 33 giri ‘The Five Faces Of Manfred Mann’. Qualche rimpasto di formazione portò brevemente nel gruppo proprio un Jack Bruce in era pre-Cream, giusto in tempo per centrare, col singolo ‘Pretty Flamingo’, l’ennesimo successo di una carriera fin lì assai dorata. È proprio nel bassista che Mann trovò terreno fertile per un passo successivo ben più radicale: ‘Instrumental Asylum’. Stampato nel 1966, l’EP in questione vedeva i Manfred Mann rileggere in chiave jazz quattro popolari brani pop/rock di quel periodo. Ovviamente, come suggerisce il titolo, in versione completamente strumentale: il vocalist Paul Jones aveva già un piede e mezzo fuori dal gruppo, e dunque non si ha traccia della sua presenza se non per l’incisione di qualche passaggio di armonica. Non se ne sente la mancanza: la parte del leone la fanno i due vivacissimi fiati di Lyn Dobson (che qualche anno dopo presterà il suo sax alla celeberrima ‘Facelift’ dei Soft Machine) e Henry Lowther (la cui tromba apparirà a gettone in dozzine di dischi inglesi dei trent’anni successivi, tra cui la splendida doppietta ‘Spirit Of Eden’/’Laughing Stock’ dei Talk Talk), che tingono di atmosfere quasi esotiche la ‘Still I’m Sad’ di scuola Yardbirds e duettano con l’organo di Mann e i vibrafoni del batterista Mike Hugg in un’irriconoscibile quanto riuscita ‘My Generation’. ‘Satisfaction’ degli Stones invece mantiene il suo impatto rock, seppur flirtando, come la successiva ‘I Got You Babe’ (Sonny & Cher), con una specie di jazz funk che rimanda a certi complessi “organ driven” di quegli anni.

Nonostante il piglio pionieristico (o forse proprio per quello), ‘Instrumental Asylum’ si rivelò un clamoroso buco dell’acqua, vendendo tre copie in croce. Già il full length successivo (senza più Bruce, ormai impegnato con Clapton e Baker), ‘As Is’, tentava un prevedibile passo indietro, mantenendo sì qualche influenza jazz, ma ben mitigata dal ritorno a una formula pop meno spiazzante e di sicuro più proficua. Il tastierista però il vizio non lo perse, e pochi mesi dopo ci riprovò con ‘Instrumental Assassination’, un altro EP che resta gemello dell’originale solo nelle intenzioni: senza più Bruce, Dobson e Lowther (è lo stesso Mann a “riprodurre” i fiati col mellotron) le riletture di turno (questa volta di Troggs e Georgie Fame con due brani a testa) suonano poco coinvolgenti e ancor meno ispirate. Meglio andrà, qualche anno dopo, con gli effimeri Manfred Mann’s Chapter Three, autori di un paio di album che si muoveranno in territori ormai prettamente jazz rock, ma è una storia che, semmai, rimandiamo a un’altra puntata. Per ora basti sapere che ‘Instrumental Asylum’ è recuperabile per intero su CD nell’antologia (datata 1967) ‘Soul Of Mann’; medesima sorte o quasi è toccata a ‘Instrumental Assassination’, ristampato integralmente nella raccolta (in questo caso del 1968) ‘What A Mann’, della quale però non risultano edizioni in compact disc: una mancanza che possiamo certamente compensare con una bella sessione di karaoke. (Nico Toscani)

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