Di recente, in occasione del nuovo, ottimo album di Etienne Charles, parlavamo del solido legame che unisce il jazz con i luoghi e le sonorità dell’America centro-meridionale. Una parentela dalle origini antiche (basti citare il caso forse più famoso, Dizzy Gillespie, che abbeverandosi a quelle fonti ha prodotto alcuni dei migliori episodi della sua sterminata carriera) e che ancora oggi perdura con immutata efficacia grazie alle intuizioni di musicisti come James Carter o lo stesso Charles. Tra coloro che nel tempo hanno strizzato l’occhio alle sonorità caraibiche, quello di Freddie Hubbard non è tuttavia il primo nome a venire in mente. Anzi, nemmeno il secondo o il terzo. Lo si può identificare coi suoi capolavori su Blue Note, con la svolta più “facile” (e assai meno riuscita) verso territori soul/funk, finanche con una manciata di dischi piuttosto sperimentali per i suoi canoni (l’ottimo ‘Red Clay’, da riscoprire), eppure, per quanto trascurato, in certe zone geografico-musicali ci è passato anche lui. Con ottimi risultati, per giunta.
“Quando nel 1958 mi trasferii a New York, suonai per un po’ con un gran gruppo chiamato Pucho & The Latin Soul Brothers”, dichiarava Hubbard tra le note di copertina, aggiungendo: “Il mio stile esecutivo e compositivo è stato influenzato dalla ‘third world music’ sin da allora”. A riconnetterlo con quell’antico ascendente, in tanti anni emerso solo a sprazzi, ci pensa un tour del 1989 che lo vede esibirsi in Messico, ma soprattutto in Guatemala e a El Salvador, paesi le cui atmosfere esotiche pervaderanno quasi ogni solco della successiva emissione da studio, programmaticamente intitolata ‘Bolivia’. Un risultato che il trombettista persegue ricongiungendosi a due vecchi compagni d’avventura: il pianista Cedar Walton (autore dello standard che dà il titolo all’album) e il batterista Billy Higgins, i quali portano con sé il loro fido bassista David Williams, nativo di Trinidad che con il suo retaggio caraibico rappresenta l’ideale chiusura del cerchio. La piccola frontline di sax è infine affidata a due affidabilissimi emergenti (per l’epoca) come Ralph Moore e Vincent Herring: tenore e soprano il primo, contralto il secondo.
Proprio la ben nota title-track, vivace hard bop a tinte latine, traccia al meglio la strada da seguire, che gli originali di Hubbard cercano di portare avanti alzando ulteriormente l’asticella. Se ‘Third World’ prosegue nel solco già tracciato (con i sax che si ritagliano il loro momento di gloria), lo zenit è strategicamente piazzato in apertura: ‘Homegrown’ è senz’altro la più”esotica”, con tromba e piano che si lanciano in scambi e assoli avvincenti con tanto di congas a sostenere. Il resto gioca su territori sicuri: ‘Dear John’ omaggia Coltrane e cita ‘Giant Steps’, mentre ‘God Bless The Child’ di Billie Holiday, pur pregna di un certo lirismo, suona forse un po’ fuori contesto, unica leggera incertezza in scaletta.
Oltre che per la musica in sé, ‘Bolivia’ è un capitolo importantissimo anche in prospettiva: si tratta dell’ultimo vero guizzo di Hubbard, il colpo di coda di una carriera che negli anni successivi, complice anche un brutto infortunio al labbro dai pesanti strascichi, lo vedrà barcamenarsi soprattutto in sciapi tributi a tizio o a caio, per giunta sempre più ignorato da quella critica mai troppo generosa – a tratti persino snobista – nei suoi confronti. Ma chi il jazz lo ama davvero sa bene che parliamo di uno dei migliori trombettisti della storia di questa musica. E tanto basta. (Nico Toscani)