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Un’interessante mostra verrà inaugurata domani sera, 6 Dicembre, presso i locali dell’associazione Diavolo Rosso di Asti (Piazza San Martino 4). Luciano Viotto, curatore dell’evento, ha ritrovato lo scorso anno una serie di immagini da egli stesso scattate durante l’ultima esibizione italiana di Chet Baker, nell’Aprile dell’88 (neanche un mese prima della sua scomparsa) al Teatro Carignano di Torino.  Immagini che, assieme all’esposizione di alcune rarità e alla proiezione di un documentario che analizza il rapporto del trombettista con l’Europa e con l’Italia, rappresentano il fulcro dell’evento, già presentato nei mesi scorsi in Liguria. La mostra è a ingresso libero e dopo l’inaugurazione sarà visitabile nel weekend 7/8 Dicembre e poi da giovedì 12 a domenica 15, sempre dalle ore 19 alle ore 22.

Quello di Dario Germani, contrabbassista laziale, è un trio pianoless (oltre al titolare: Stefano Preziosi al contralto, Luigi Del Prete alla batteria e l’ospite Max Ionata al tenore) che si muove con disinvoltura tra cool jazz e bop, proponendo, oltre a un pugno di originali, una serie di riletture per nulla ovvie (pescate dai repertori di monumenti come Paul Desmond, Bud Powell, Monk, Yusef Lateef e Miles Davis). Dell’ottimo esordio ‘For Life’ (Tosky Records) vi abbiamo già ampiamente detto in sede di recensione: ora è il momento di porre qualche domanda per conoscerlo meglio.

Ascoltando ‘For Life’ non si direbbe, ma nasci come musicista rock. Raccontaci il tuo percorso musicale: come sei arrivato infine al jazz?
Ho iniziato suonando musica rock con il basso elettrico, strumento che avevo iniziato a studiare con il maestro Gianluca Renzi, per poi passare al contrabbasso, sempre parallelamente agli studi classici. All’inizio il jazz mi interessava solo come studio, poi si è trasformato in una vera e propria passione per la vita. Il jazz è un viaggio infinito senza ritorno, secondo me. (Continua a leggere)

Avrebbe compiuto ben 91 anni il prossimo 25 Giugno, ma purtroppo i postumi di una brutta caduta se lo sono portato via mercoledì scorso. Johnny Smith con la sua chitarra ha scritto pagine memorabili nella storia del cool jazz (le più note: ’Walk Don’t Run’ e ‘Moonlight In Vermont’, quest’ultima spalleggiato da Stan Getz), e ha suonato la chitarra in formazioni guidate da gente come Count Basie e Stan Kenton.

Nonostante le referenze di rilievo, oggi sono in pochi a ricordarsi di lui, questo perchè, a differenza di altri colleghi attivi fino in tarda età, si è ritirato dalle scene all’apice della carriera, alla fine degli anni ’50. Una decisione sofferta come non mai: “Mia moglie morìspiegava - E mi trovai a dovermi prendere cura da solo di una figlia di 5 anni. Non avrei mai potuto allevarla a dovere continuando a suonare in studio e nei club come facevo all’epoca”. Così lasciò la tentacolare New York City e si rifugiò in Colorado, dove vivevano sua madre e i suoi fratelli. Una decisione un po’ più facile da prendere, questa: “Non è per sparlare di New York, ma non sopportavo quello stile di vita e tutta la pressione che portava con sé. Proprio non mi piaceva”. (Continua a leggere)

In un recente articolo si parlava di come la nuova generazione di musicisti jazz italiani veda i suoi esponenti migliori in nomi dinamici, aperti alle contaminazioni e dalle influenze molteplici. Il contrabbassista laziale Dario Germani, fresco d’esordio in proprio, rappresenta l’altra faccia della medaglia: ‘For Life’ è una dichiarazione d’amore verso il jazz degli anni ’50 e ’60, che si avvicina a quell’epoca con un rigore di rado riscontrabile in musicisti così giovani (classe 1984, per la precisione). Un approccio corroborato anche dalla felice scelta d’incidere il disco live in una sala della suggestiva Villa D’Este (Tivoli), che conferisce all’insieme un suono “caldo” e con caratterizzanti riverberi naturali, che lo rende ancora più affine a certe incisioni dell’epoca.

Non si faccia tuttavia l’errore di scambiare Germani per uno dei tanti calligrafici tributi che infestano l’ambiente jazz nostrano. Non andrà a cercare l’ispirazione oltre gli steccati del genere, ma dinamico lo è eccome: (Continua a leggere)

Un altro pezzo di storia del jazz che se ne va: Dave Brubeck è morto oggi in un ospedale di Norfolk, Virginia, appena 24 ore prima del suo 92esimo compleanno. Qui la notizia tratta dal Chicago Tribune. Speriamo che dall’altra parte apprezzino i tempi dispari.

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Rispetto alla prima serata c’è più gente, trovare posti a sedere è impresa assai ardua e molti sono quelli che si accomodano in piedi ai lati delle poltroncine. Verrebbe da pensare che gli appassionati di jazz sono tutti qui per non perdersi l’appuntamento importante, non fosse per il viavai di gente che con nonchalance si alza e si siede per tutta la durata del concerto, tra ritardatari che chiedono se quel posto vuoto è occupato, curiosi che guardano un paio di pezzi e via, altri che tolgono le tende dopo mezz’ora per chissà quale coprifuoco (alle 23 la loro utilitaria si sarebbe trasformata in zucca?) e altri ancora che si aggirano come avvoltoi, pronti a fiondare il deretano sul primo quadrato di plastica che resta libero. Come se non bastasse, a un certo punto ti giri e scopri una coppia più o meno matura che DORME abbracciata. A pochi posti di distanza, una signora segue l’esempio. (Continua a leggere)