Quello di Dario Germani, contrabbassista laziale, è un trio pianoless (oltre al titolare: Stefano Preziosi al contralto, Luigi Del Prete alla batteria e l’ospite Max Ionata al tenore) che si muove con disinvoltura tra cool jazz e bop, proponendo, oltre a un pugno di originali, una serie di riletture per nulla ovvie (pescate dai repertori di monumenti come Paul Desmond, Bud Powell, Monk, Yusef Lateef e Miles Davis). Dell’ottimo esordio ‘For Life’ (Tosky Records) vi abbiamo già ampiamente detto in sede di recensione: ora è il momento di porre qualche domanda per conoscerlo meglio.
Ascoltando ‘For Life’ non si direbbe, ma nasci come musicista rock. Raccontaci il tuo percorso musicale: come sei arrivato infine al jazz?
Ho iniziato suonando musica rock con il basso elettrico, strumento che avevo iniziato a studiare con il maestro Gianluca Renzi, per poi passare al contrabbasso, sempre parallelamente agli studi classici. All’inizio il jazz mi interessava solo come studio, poi si è trasformato in una vera e propria passione per la vita. Il jazz è un viaggio infinito senza ritorno, secondo me.
Pensi che le tue radici rock abbiano influenzato in qualche modo il tuo stile al contrabbasso?
Sicuramente sì. Innanzitutto per come “stare sul tempo”, poi nel modo di affrontare il palco e il pubblico. E, soprattutto, nel modo di rapportarsi tra musicisti.
Nell’album spicca un ottimo affiatamento tra gli strumentisti: come hai incontrato Stefano e Luigi? Da quanto tempo suoni con loro?
Io e Stefano ci siamo conosciuti circa 4 anni fa in conservatorio a Frosinone ed è un anno e mezzo che suoniamo insieme. Di lui mi hanno colpito da subito la professionalità, il suono, la disponibilità, la tecnica strumentale, ma soprattutto l’originalità nel suonare i temi. Luigi l’ho conosciuto grazie ai produttori della Tosky Records pochi mesi prima di registrare il disco: dopo la prima prova insieme ho capito che era il batterista giusto per registrare ‘For Life’. Del suo modo di suonare mi piacciono le dinamiche, l’originalità, i suoni, sia dei piatti che dei tamburi, nonché l’energia e il suo entusiasmo; non a caso è il batterista scelto da Dario Deidda.
Si tratta di un affiatamento nel quale si inserisce alla perfezione lo special guest Max Ionata: com’è nata la decisione di inserire un secondo sax?
Conosco da tempo i vari progetti di Max, nelle varie formazioni. Mi ha colpito soprattutto uno degli ultimi dischi che ha registrato in trio pianoless con una ritmica americana: una direzione che anche io sentivo di voler prendere. Anche la Tosky ha dimostrato un grande interesse per quest’artista. Poi la sua professionalità, l’originalità, la simpatia e la grande apertura e disponibilità nel confrontarsi, hanno fatto il resto.
Per i concerti continuerete in tre o pensi di accogliere comunque un secondo sax, che sia Max o un altro musicista?
La maggior parte dei concerti li abbiamo fatti in trio e continueremo così, perché Max è sempre molto impegnato. Mi piacerebbe comunque invitare anche Danielle Di Majo al sax alto, Michael Rosen al soprano o Steve Grossman al tenore… Prima o poi accadrà!
Un altro aspetto che mi ha impressionato molto è il lavoro di arrangiamento, visto che molte delle riletture proposte sono brani composti in origine da musicisti dediti a strumenti del tutto assenti nella vostra formazione. Come ti approcci a queste rielaborazioni?
Grazie per la domanda. Questo è il punto cardine della mia attuale ricerca musicale, che verte principalmente sull’aspetto timbrico dell’arrangiamento e non su complesse elaborazioni del brano. È quindi per me una “sfida musicale” ma anche una strada da percorrere, quella di riuscire a rendere interessante e stimolante dal punto di vista interpretativo e improvvisativo, sia per il musicista che per l’ascoltatore, un brano di Bud Powell riproposto senza pianoforte o anche brani di trombettisti.
Ascoltando la tua rilettura di ‘Bud On Bach’ mi viene appunto da chiederti: pensi che il tuo stile sia in qualche modo influenzato anche da musicisti che non siano necessariamente dediti al contrabbasso?
Certamente sì. Bach su tutti: trasmette chiaramente a tutti noi comuni mortali “il bello” e quello che viene definito “perfezione musicale”. Ma anche Keith Jarrett, secondo me il più grande improvvisatore di tutti i tempi, Paul Motian per il suo carisma, Bud Powell e Monk come compositori e Miles Davis come bandleader.
Quali bassisti citeresti come fonte d’ispirazione?
Primo su tutti da sempre Mr. Paul Chambers. Tra i contemporanei Scott Colley; ho studiato con lui a Siena Jazz 2009. Ma anche Larry Grenadier, Eddie Gomez & Buster Williams, anche loro miei insegnanti in vari seminari estivi. Poi Charles Mingus, Ray Brown, Scott LaFaro, Dave Holland, Charlie Haden, Niels H. O. Pedersen, Ron Carter, Jaco Pastorius, Franco Petracchi e non ultimo Giovanni Tommaso.
Stessa domanda di prima, ma riferita questa volta ai vostri brani originali: nascono partendo da un’idea improvvisata o dalla composizione scritta?
Nascono da un’idea melodica o armonica che mi viene nei momenti più disparati: mentre guido, nel letto o mentre mangio; poi con l’ausilio del pianoforte e del contrabbasso la metto su carta, e con il trio provo diverse soluzioni per l’arrangiamento.
La registrazione a Villa D’Este ha regalato all’album un suono “caldo” che richiama le produzioni anni ’50 e ’60 alle quali è ispirato. Caso o scelta precisa?
È stata una scelta molto precisa, fortemente voluta da me. Dopo aver ascoltato ‘Too Marvelous For World’, il primo disco prodotto della Tosky Records, nonché esordio del talentuoso pianista Domenico Sanna, registrato nella villa di Nicola Bulgari in Toscana con lo studio mobile, ho deciso di partire da quest’esperienza per creare un sound caratterizzato dal riverbero naturale della stanza per dare dei valori aggiunti alla registrazione. Con Villa D’Este, per un periodo di tempo residenza del compositore ungherese Franz Liszt, è stato amore a prima vista. Tutto ciò si è potuto realizzare grazie alla disponibilità della direttrice della Villa, Marina Cogotti, alle competenze e alla professionalità dei fonici Giorgio Lovecchio, Davide Belcastro e Stefano Isola e, naturalmente, grazie ai musicisti che mi hanno accompagnato in quest’avventura.
In ambito italiano, specie a livello “mainstream”, il jazz tende spesso ad “annacquarsi”, a cedere alla tentazione della melodia pop e della musica “da cartolina” per accontentare un pubblico “da salotto” sempre meno attento alle radici americane del genere, alle quali invece voi fate chiaro riferimento. Quali difficoltà incontra oggi in Italia un giovane musicista che vuol dedicarsi al jazz senza cedere a certi compromessi?
Secondo me non è un problema di difficoltà, ma semplicemente una questione di scelte stilistiche. Io ho scelto il jazz, senza se e senza ma.
Ho ascoltato in radio un tuo brano con un recitato dell’attrice Valentina Minzoni: di cosa si tratta precisamente? Progetto isolato o avete qualcosa in cantiere?
Ho conosciuto Valentina pochi minuti prima di iniziare la trasmissione radiofonica. Quella del duetto con il contrabbasso è stata un’idea di Massimo Nunzi, il conduttore, quindi assolutamente improvvisata e basata sull’estemporaneità. Le sue letture erano estrapolate dal libro di Wynton Marsalis, che io naturalmente avevo letto, e quindi non è stato difficile per me calarmi nei panni di “attore musicale”.
In che direzione pensate di muovervi in futuro? Proseguirete sulla linea tra bop e cool jazz di ‘For Life’ o pensate di valutare nuove prospettive?
Mi piacerebbe proseguire sulla linea bop e cool per i prossimi progetti: credo ci sia ancora molto da “scavare” negli anni ‘50/’60. Non escludo alla lunga nuove prospettive, soprattutto legate all’elettronica e all’uso di strumenti poco usati nel jazz.
(Intervista raccolta da Nico Toscani)