FREE FALL JAZZ

Filthy McNasty's Articles

Frequento i social da poco tempo, meno di un anno e devo dire che se ne leggono delle belle intorno alla materia jazzistica, in un modo che, a mio avviso, è quanto mai indicativo dello stato di confusione che regna in merito ormai da troppo tempo nel nostro paese. C’è chi, specie tra gli stessi musicisti nazionali, invoca l’obbligo di sostenere il cosiddetto “jazz italiano”, altri che sostengono all’opposto che “Jazz” è una parola superata e se serve ad etichettare certo “jazz europeo” ormai completamente “sbiancato” in lavatrice con forti dosi di candeggina, allora non può essere utilizzata da ciò che viene prodotto oggi negli U.S.A. dai musicisti afroamericani, che preferiscono parlare di Black American Music (la cosiddetta B.A.M.). (Continua a leggere)

Uno non fa in tempo a gioire del BAM Festival, sperando sia la prima edizione di una lunga serie, che subito devono saltar fuori mille voci contrarie, fraintendimenti, illazioni e derisioni. (Continua a leggere)

Ok, qualcuno potrebbe dire “Eammeccheccazzomenefregammè!?”, ma a quel punto non ce ne fregherebbe niente a noi. Quando abbiamo pubblicato la recensione del bellissimo ‘The Offense Of The Drum’ si parlava già della nomination per il Grammy di O’Farrill. (Continua a leggere)

Basta, non se ne può più. Mistificazioni sul jazz spacciate per autentica informazione culturale ormai se ne leggono in continuazione, ma quella faccenda che si protrae da sin troppo tempo di Nick La Rocca e la supposta primogenia italica del jazz, spacciata per fatto assodato, che va avanti da alcuni anni con la compiacenza di organi di stampa nazionali e del servizio pubblico televisivo, è davvero non tollerabile oltre, quanto per altri versi sintomatica dello stato di incultura musicale e jazzistica coltivata e raggiunta dal nostro paese. (Continua a leggere)

Facebook permette di curiosare nelle vite altrui (o, se preferite, farsi i cazzi degli altri), nella misura in cui gli altri parlano del proprio privato su Facebook. Ma permette pure di osservare cose molto più leggere, come le chiacchiere su qualsiasi argomento. (Continua a leggere)


Ho avuto modo in questi giorni, dopo più di un decennio che non lo facevo, di leggere diverse classifiche jazz di fine anno, tra quelle fruibili in rete e quelle ufficiali su riviste specializzate e mi sono accorto che in questo lungo lasso di tempo in realtà è cambiato poco o nulla nel modo di stilarle, continuando quindi ad averle in uggia come in passato. (Continua a leggere)

Lady GaGa: preferiamo ricordarti così!

Lady Gaga e Tony Bennett, a quanto pare, vogliono fare un tour estivo in Europa. Sui palchi più prestigiosi d’Europa, nello specifico.  Nei quindici festival più importanti d’Europa, per spaccare il capello in quattro. (Continua a leggere)

Era da qualche tempo che meditavo di scrivere un articolo approfondendo un tema già più volte sfiorato su queste pagine: quello degli artisti – spesso in crisi di popolarità – che tentano di rifarsi una verginità e riqualificarsi agli occhi di un certo pubblico tentando la fatidica carta del disco jazz. All’estero sembra più una questione di entertainment (e in questo senso, nessuno meglio del grande David Lee Roth, uno che sembra nato tanto per cantare in un casinò di Las Vegas quanto su uno sterminato palco tra le cascate di scintille dei fuochi pirotecnici e quelle di watt delle chitarre elettriche), è infatti questo l’approccio che, a prescindere dalla bontà dei risultati (tutt’altro che entusiasmante), sembra animare dischi come quello di Robbie Williams o finanche quello di Paul McCartney, che si divertono a riproporre standard come se non ci fosse un domani. Qui da noi invece la “svolta jazz” spesso cela pretese non solo intellettuali ma anche narcisistiche. Sì, perchè di solito, e perdonateci la brutale generalizzazione, il cantautore di turno pretende di “diventare jazz” non andando a cimentarsi con i rassicuranti standard di cui sopra, bensì rileggendo il suo stesso repertorio con l’aggiunta di un contrabbasso e un po’ di plin plin plin pianistico, in attesa che qualcuno ci caschi e parli di “raggiunta maturità”. E puntualmente accade. (Continua a leggere)

In Italia abbiamo due trombettisti che da anni dominano la scena jazzistica nazionale e sono tra i più noti anche all’estero, portati in palmo di mano pressoché da tutti: informazione, critica e gran parte del pubblico, immagine di un sedicente “Made in Italy” jazzistico, sempre più orgogliosamente e autarchicamente esibito. (Continua a leggere)

Quella che vedete a sinistra è la copertina del numero di settembre di Musica Jazz. Mentre scrivo non è ancora uscito, ma immagino che lo farà a giorni. Non ricevo jpg dal futuro, ovviamente, mi sono limitato a prenderla dal profilo Facebook di JD Allen: il sassofonista di Detroit è ben contento di essere sulla copertina di una rivista assieme al collega James Brandon Lewis. La cosa mi fa un immenso piacere, perché finalmente trovo un giornale italiano che mette in copertina due musicisti di oggi immersi nel jazz contemporaneo che si evolve dalla sua matrice originaria americana e afro-americana. E’ chiedere troppo? No, in realtà no, ma visto che negli anni a nessuno in Italia sembra esser mai fregato un emerito di (citazioni a caso) Christian Scott, James Carter, Jason Moran, Eric Reed, Orrin Evans, Brian Blade, Mary Halvorson, Eric Revis, Rudresh Mahantappa e tutta una marea di altri, relegati sempre ai margini quando va bene, è un gran bel lusso. (Continua a leggere)

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