FREE FALL JAZZ

Era da qualche tempo che meditavo di scrivere un articolo approfondendo un tema già più volte sfiorato su queste pagine: quello degli artisti – spesso in crisi di popolarità – che tentano di rifarsi una verginità e riqualificarsi agli occhi di un certo pubblico tentando la fatidica carta del disco jazz. All’estero sembra più una questione di entertainment (e in questo senso, nessuno meglio del grande David Lee Roth, uno che sembra nato tanto per cantare in un casinò di Las Vegas quanto su uno sterminato palco tra le cascate di scintille dei fuochi pirotecnici e quelle di watt delle chitarre elettriche), è infatti questo l’approccio che, a prescindere dalla bontà dei risultati (tutt’altro che entusiasmante), sembra animare dischi come quello di Robbie Williams o finanche quello di Paul McCartney, che si divertono a riproporre standard come se non ci fosse un domani. Qui da noi invece la “svolta jazz” spesso cela pretese non solo intellettuali ma anche narcisistiche. Sì, perchè di solito, e perdonateci la brutale generalizzazione, il cantautore di turno pretende di “diventare jazz” non andando a cimentarsi con i rassicuranti standard di cui sopra, bensì rileggendo il suo stesso repertorio con l’aggiunta di un contrabbasso e un po’ di plin plin plin pianistico, in attesa che qualcuno ci caschi e parli di “raggiunta maturità”. E puntualmente accade.

Ieri, in Inghilterra, sul Guardian per la precisione, è apparso un interessantissimo articolo a firma Philip Clark che commenta la “voglia di jazz” delle stelle del pop e del rock. Un’analisi lucida e condivisibile che parte da un assunto incontestabile: jazzisti non ci si improvvisa. Magari presto o tardi scriveremo davvero un approfondimento sulla “piaga” italiana di questo filone, ma nel frattempo ci sembra cosa buona e giusta proporvi qui di seguito una traduzione dello scritto d’oltremanica. Buona lettura.

Di tutte le idee schifose elaborate dai discografici nell’affannoso tentativo di far quadrare i bilanci, l’album di standard jazz cantati dalla popstar di turno – spesso in calo di popolarità, ma non necessariamente – sembra la più disperata. Come gli sceneggiatori di sit com che pensano che mandare i loro personaggi a Torremolinos per un episodio speciale sia una buona idea per ridare ossigeno a un programma che ha i giorni contati, le possibilità di riuscita per una voce pop che si dà al jazz sono virtualmente nulle.

Il jazz è un’arte seria e nobile con una propria cultura e una propria storia, alimentata da una serie di tecniche fondamentali che però ai profani possono sembrare oscure e nebulose quanto la ricetta della Coca Cola. E per quanto Rod Stewart, Robbie Williams, Paul McCartney e ora anche Lady Gaga e Annie Lennox pensino ardentemente che sbattersi con una sfavillante big band possa rivestire le loro carriere con l’aura mistica e la musicalità sofisticata di Billie Holiday, sono destinati a rimanere delusi. Il contesto è completamente sbagliato: se separate la “gatta” della signora Slocombe dai fratelli Grace, lo scherzo non fa più ridere (riferimento alla sit com inglese Are You Being Served?, nda).

Il disco di Lady Gaga in coppia con Tony Bennett, ‘Cheek To Cheek’, uscito il mese scorso, e ‘Nostalgia’ di Annie Lennox, in uscita questa settimana, sono due esempi perfetti di questa trappola. Gaga si destreggia attraverso evergreen come ‘Anything Goes’ e ‘I Can’t Give You Anything But Love’,ma anche ‘Let’s Face The Music And Dance’, che è degna almeno di una medaglia al merito per averci provato. È chiaro che sia perdutamente innamorata di questa musica, ma la sua performance “urlata” e ritmicamente quadrata ricorda più una generica imitazione di Broadway che non qualcosa di imparentato col jazz. I disinvolti giochi ritmici di Bennett – battute che cambiano di posto, armonie dei temi dominanti modificate verso nuove e inaspettate vesti – sono quel che nel jazz davvero conta. Gaga, almeno, viene un po’ aiutata dalla giustapposizione delle due voci.

Saper cavalcare il ritmo poi è un requisito fondamentale. Il tributo a Sinatra di Robbie Williams uscito lo scorso anno potrà anche intitolarsi ‘Swings Both Ways’, ma Williams dimostra che non riuscirebbe a “swingare” nemmeno in un parco giochi; ‘Kisses On The Bottom’ di Paul McCartney invece, che include standard di compositori dell’era Tin Pan Alley come Harold Arlen, Johnny Mercer e Irving Berlin, suona affannosamente e dolorosamente scolastico. Il Macca vorrebbe fare le cose per bene, buon per lui. Ma così come non puoi impratichirti col cinese all’improvviso, lo swing autentico non puoi impararlo nelle settimane che precedono il tuo ingresso in sala d’incisione.

Una cosa è ben chiara: il jazz e l’ego da rock star tendono all’incompatibilità. Williams si pavoneggia come suo solito nel tentativo di farci dismettere il nostro scetticismo. La sua big band ringhia e strepita. Lui di sicuro mette su uno spettacolo, un bello spettacolo, ma è solo un attore che interpreta un ruolo; l’album di McCartney, col suo titolo sfacciato e i suoi arrangiamenti allegri, conferma l’immagine che ho di lui, cioè quella di un uomo dal disperato bisogno di piacere agli altri.

Il jazz comunque può accendere luci rivelatrici lì dove meno te l’aspetti, e infatti il disco di Annie Lennox viene stroncato da un tipo di rock star ego completamente diverso. ‘Nostalgia’ è un album mesto e accigliato che vuole farti sapere quanto seriamente lei sta prendendo questo progetto. ‘Strange Fruit’, indissolubilmente legata a Billie Holiday con il suo immaginario di linciaggi del Ku Klux Klan (corpi appesi agli alberi, lo “strano e terribile frutto” del razzismo), strizza l’occhio a quel lato della Lennox lieto di definire sé stessa “cantante e attivista”. Il tutto però suona come opportunismo gratuito e fuori luogo: insomma, invocare Billie Holiday cercando di toccare i giusti tasti emotivi. E musicalmente l’album non riesce a centrare un groove jazz che sia credibile. Ogni pezzo è affossato da un pianista impacciato che in maniera dogmatica suona solo gli accordi più noti. L’istinto del musicista jazz invece sarebbe di arricchire quegli accordi base con alternative armoniche seducenti. Il “problema” dello swing la Lennox comunque lo risolve alla radice evitando qualunque uptempo, perché si sa che per quelli o hai un buon senso del ritmo oppure no.

‘Nostalgia’ si chiude con ‘Mood Indigo’ che, nelle sue battute finali, vede dei veri musicisti jazz improvvisare sul tema originale di Duke Ellington. Poi accade il disastro: quando la loro improvvisazione arriva al culmine, qualcuno decide di sfumare il loro jazz infuocato in una specie di blando riverbero ambient, il che è tutto dire.

Volete sapere il mio consiglio non richiesto per i cantanti pop che vorranno giocarsi le loro chance con un disco jazz? Date un ascolto alla sempre ottima Debbie Harry, il cui lavoro coi Jazz Passengers, un gruppo newyorkese noto per la ferocia con cui prova a reinventare il bebop, la vede immersa nell’improvvisazione vocale, con la sua voce che si estende in modi antitetici alle richieste dei fan che vorrebbero sentirla cantare le hit che ben conoscono. Se il personaggio che si è creato per i Blondie era in parte una fantasia stravagante, che sia forse questa la vera Debbie Harry? In fondo il jazz è sempre stato un modo per trovare te stesso nella musica, non Frank Sinatra.

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