FREE FALL JAZZ

don’t stop make it pop's Articles

Era da qualche tempo che meditavo di scrivere un articolo approfondendo un tema già più volte sfiorato su queste pagine: quello degli artisti – spesso in crisi di popolarità – che tentano di rifarsi una verginità e riqualificarsi agli occhi di un certo pubblico tentando la fatidica carta del disco jazz. All’estero sembra più una questione di entertainment (e in questo senso, nessuno meglio del grande David Lee Roth, uno che sembra nato tanto per cantare in un casinò di Las Vegas quanto su uno sterminato palco tra le cascate di scintille dei fuochi pirotecnici e quelle di watt delle chitarre elettriche), è infatti questo l’approccio che, a prescindere dalla bontà dei risultati (tutt’altro che entusiasmante), sembra animare dischi come quello di Robbie Williams o finanche quello di Paul McCartney, che si divertono a riproporre standard come se non ci fosse un domani. Qui da noi invece la “svolta jazz” spesso cela pretese non solo intellettuali ma anche narcisistiche. Sì, perchè di solito, e perdonateci la brutale generalizzazione, il cantautore di turno pretende di “diventare jazz” non andando a cimentarsi con i rassicuranti standard di cui sopra, bensì rileggendo il suo stesso repertorio con l’aggiunta di un contrabbasso e un po’ di plin plin plin pianistico, in attesa che qualcuno ci caschi e parli di “raggiunta maturità”. E puntualmente accade. (Continua a leggere)

Il Postmodern Jukebox è una delle cose più situazioniste in cui possiate mai imbattervi.

L’idea di base è semplice tutto sommato: un ensemble di musicisti che decostruisce i più noti successi del pop contemporaneo riplasmandoli attraverso stili più o meno vintage. Ce n’è per tutti i gusti – ragtime, country e bluegrass, persino mariachi (!!!) – e nessuno viene risparmiato: da Kesha a Lady Gaga, dagli One Direction a Lana Del Rey.  E pensare che il titolare dell’operazione, il pianista di stanza a New York Scott Bradlee, prima di giungere al modello vincente era uno snob che con questa roba non voleva aver niente a che fare: (Continua a leggere)

Lo ammetto, sono partito diffidente e anche un po’ prevenuto. Quello del cantautore (magari in calo di popolarità) che decide di “lanciarsi” nel jazz d’altronde è un quadretto inflazionato ultimamente (che poi spesso si traduce solo nei successi di sempre riletti con qualche plin plin plin in sottofondo): per qualche motivo continua ad arrivarmi una mailing list con notizie che mi informano del nuovo progetto jazzistico di Fabio Concato (…); di recente leggevo da qualche parte che pure Eduardo De Crescenzo (… …) è partito con un tour teatrale in cui rivisita il suo repertorio usando quella parolina che sembra tanto utile a riabilitare e a rifarsi una verginità presso gli occhi del pubblico serio. (Continua a leggere)

È di oggi la notizia che, dopo una citazione in giudizio e numerose proteste da parte degli artisti (tra cui anche il “nostro” Bill Cosby), la Recording Academy abbia annunciato il ripristino della categoria “Latin Jazz” per i prossimi Grammy Awards.

La suddetta categoria era stata eliminata lo scorso anno insieme ad altre trenta (portando il totale da 109 a 78): gli organizzatori giustificarono il cambiamento annunciando di voler aumentare la competitività della premiazione (gli artisti latin jazz e delle altre categorie eliminate restavano infatti ovviamente eleggibili altrove), ricevendo però in cambio solo mugugni e persino un’azione legale.

Alle prossime premiazioni le categorie saliranno a 81: oltre “Latin Jazz” ne vengono infatti introdotte anche altre due che non vi stiamo a spiegare perchè non è “roba nostra”. Il video qui sotto comunque sintetizza perfettamente la nostra opinione sull’intera questione.