FREE FALL JAZZ

Basta, non se ne può più. Mistificazioni sul jazz spacciate per autentica informazione culturale ormai se ne leggono in continuazione, ma quella faccenda che si protrae da sin troppo tempo di Nick La Rocca e la supposta primogenia italica del jazz, spacciata per fatto assodato, che va avanti da alcuni anni con la compiacenza di organi di stampa nazionali e del servizio pubblico televisivo, è davvero non tollerabile oltre, quanto per altri versi sintomatica dello stato di incultura musicale e jazzistica coltivata e raggiunta dal nostro paese.

Penso che il buon Arrigo Polillo con lo sforzo che fece negli anni ’70 per divulgare in termini popolari un corretto verbo jazzistico si rivolterebbe nella tomba se potesse leggere certe cose.

Prima Renzo Arbore con tanto di conferenza stampa del servizio pubblico tv, ora ci si mette anche il Fatto Quotidiano (complimenti vivissimi …) con l’articolo di Lino Patruno apparso recentemente a ribadire concetti come minimo parziali e provincialmente faziosi, sin troppo facilmente confutabili da qualsiasi appassionato del jazz con un minimo di conoscenze jazzistiche degne di questo nome. Il fatto di affermare che il primo disco jazz fu inciso da un italo-americano a supporto di certe sgangherate tesi è insignificante e sfiora il patetico, per l’evidente approssimativa superficialità nell’utilizzare un noto luogo comune che mi era già noto come confutato quasi 40 anni fa, da adolescente, sfogliando le pagine del celeberrimo “Jazz” di Arrigo Polillo. Certo non un trattato di musicologia, ma comunque un onesto tentativo di corretta, semplificata e appassionata divulgazione jazzistica nel nostro paese. Peraltro recentemente era stato pubblicato in rete un prezioso saggio di Gianni M. Gualberto contenente una capillare ricostruzione storica dei fatti pre-jazzistici (e che a questo punto forse ripubblicheremo revisionato sul nostro sito).  E, come dire, il riproporre come un refrain tale argomentazione è il sintomo inequivocabile di quanto il paese sia arretrato in questi decenni, non solo culturalmente, e predisposto a bersi tutto.

Come sempre, la disinformazione in qualsiasi ambito riesce a raggiungere livelli di espansione e penetrazione degni del gas metano, in un modo totalmente proibitivo  per qualsiasi verità acclarata. D’altronde è comprensibile: alle cosiddette “masse” si dà in pasto quel che esse vogliono sentirsi dire e cioè che noi italiani siamo pur sempre i migliori in qualsiasi campo, un popolo straordinario di geni, inventori e navigatori (e a quanto pare jazzisti) apprezzati in tutto il mondo. Sì, forse un tempo, nel Rinascimento, cioè qualche secolo fa, certo complessivamente non nel Novecento, che è stato senza ombra di dubbio il secolo del Nuovo Mondo e delle genti che lo hanno popolato, men che meno in questo XXI secolo che pare proprio dominato da quelli che qualcuno ancora si ostina a definire eurocentricamente  “paesi emergenti”. E come faccia l’Italia, cioè uno dei paesi da anni statisticamente più arretrati e degradati dell’Occidente, all’interno, oltretutto, di un contesto storico del Vecchio Continente declinante da decenni, abbarbicato al proprio fulgido passato, ad essere culturalmente e musicalmente centrale nel processo evolutivo mondiale è un bel mistero che certa artificiosa mistificazione pervicacemente insiste a proporci, mentre all’estero ormai da tempo ci considerano decisamente ininfluenti, politicamente, economicamente e naturalmente anche dal punto di vista del progresso culturale. Che qualcuno prigioniero del proprio paesello e cultore di certo nazionalismo di seconda mano (fa riflettere che certa attempata sinistra abbia oggi molte affinità argomentali con la Lega di Matteo Salvini) si decida a prendere un aereo e si faccia un bel giretto, che so, a Chongqing, metropoli di 8 milioni di abitanti nella sconosciuta provincia cinese del Sichuan, per dare un’occhiata a dove è oggi il mondo, quello che solo una ventina di anni fa il mio superiore d’azienda definiva, giusto per non usare il linguaggio scurrile originario, “l’orifizio da fondoschiena del mondo”. Ho la sensazione che in questi vent’anni le parti si siano purtroppo invertite, a nostra totale nazional-inconsapevolezza.

Che gli italiani (o meglio gli italo-americani, che non è proprio la stessa cosa) abbiano contribuito alla formazione del jazz, assieme ad altre etnie (magari tra i tanti nomi citati da Patruno, molti dei quali peraltro decisamente ininfluenti dal punto di vista linguistico, si poteva anche citarne almeno il triplo tra quelli appartenenti alla comunità ebraica americana, per esempio lo stesso citato Benny Goodman…) è un conto, lasciar intendere sotto sotto che sia stato un prodotto principalmente italiano è un altro.

Del resto basta scorrere i nomi dei maggiori innovatori del linguaggio jazzistico per accorgersi come sia difficile trovarvi non un italo-americano, ma un semplice “bianco” anche solo nei primi dieci nominabili (Armstrong, Morton, Ellington, Parker, Gillespie, Monk, Mingus, Davis, Coltrane, Coleman, chi scalziamo per metterci un italo americano?) e tra i nomi citati da Patruno solo Jimmy Giuffre raggiunge i crismi dell’autentico innovatore, o davvero vogliamo far credere che Tony Sbarbaro è stato un grande iniziatore della batteria, o il mediocrissimo Nick La Rocca in competizione con King Oliver e Louis Armstrong?

Certo, capisco che chi sta oggi in ansia per l’ultima uscita di attempati epigoni italici della tromba che dovrebbero appendere da tempo lo strumento al chiodo, sempre acriticamente esaltati da una critica provinciale, vorrebbe accreditarsi competenze e conoscenze jazzistiche che non possiede, ma il paese degli Open Day, del marketing “de noantri” e dei bollini obbligatori di legge per far lavorare monopolisticamente qualche lobby, non può attribuirsi anche patenti che non possiede e mai possiederà.
(Riccardo Facchi)

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