FREE FALL JAZZ

Facebook permette di curiosare nelle vite altrui (o, se preferite, farsi i cazzi degli altri), nella misura in cui gli altri parlano del proprio privato su Facebook. Ma permette pure di osservare cose molto più leggere, come le chiacchiere su qualsiasi argomento. E fra queste, le chiacchiere sulla musica – quelle che i musicisti stessi fanno, discorrendo fra di loro. Personalmente, ho parecchi musicisti che io stesso ho recensito e/o intervistato su queste webpagine fra gli amici, e pure qualche giornalista. Niente di particolare, basta fare una richiesta, non sono certo un privilegiato. Però verso la fine dell’anno non ho potuto fare a meno di notare una cosa: i jazzisti americani, e i giornalisti/critici con loro, si sono lanciati in lunghe discussioni sul nuovo disco di D’Angelo, ‘Black Messiah’. Un disco atteso da ben quattordici anni: era dai tempi del moderno classico ‘Voodoo’ che si attendeva la nuova uscita del celebre polistrumentista, cantante e compositore, uno dei fondatori del new soul assieme a Maxwell, Lauryn Hill ed Erykah Badu. Il new soul, per chi non lo sapesse, è quel tipo di musica che ha portato il soul nell’era dell’hip-hop. Adesso mi direte: ok, ma a noi? A parte consigliare comunque dell’ottima musica, è interessante vedere come una buona fetta del jazz americano rivolga grande attenzione e partecipazione ad un peso massimo della black music, analizzandolo lungamente in interessanti disanime. Un fatto che non avevo mai riscontrato prima, in sei o sette anni di Facebook, e che certo non avviene mai quando Anthony Braxton o Roscoe Mitchell pubblicano qualcosa – anzi, a nessuno frega niente di loro, direi. Una contrapposizione pretestuosa, certo. Però è indicativa di come buona parte dei musicisti jazz, quelli ancora legati al suo continuum e al suo linguaggio, e che guardano avanti senza prescindere da esso, proseguano tutti su una linea idealmente riconducibile a colossi come Horace Silver, Cannonball Adderly, Miles Davis, Freddie Hubbard, Lee Morgan: ovvero la rielaborazione jazzistica di musica nera “popolare”. Una volta erano soul, rhythm’n'blues, funk, oggi hip-hop e neo-soul, ma la similitudine mi pare evidente. Nonché perfettamente logica e latrice di ottimi frutti, di cui abbiamo parlato molto spesso qui dentro. ‘Black Messiah’ e il suo impatto sui jazzisti è dunque più la conferma di una sensazione che una sorpresa. Ed è una bella cosa. E si ricollega al fatto che se la critica europea e italiana auspica un jazz “finalmente rispettabile”, nel senso una muffita musica d’avanguardia da consumare nella propria torre d’avorio, al riparo dal volgo, oltreoceano invece lo vogliono vivo, pulsante, comunicativo e in crescita secondo le proprio regole e non elemosinando grandezza a stagioni artistiche già concluse da un pezzo. A differenza, insomma, delle soporifere uscite di retroguardia con vestiti alla moda pubblicate ogni mese in Europa.
(Negrodeath)

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