FREE FALL JAZZ

Quella che vedete a sinistra è la copertina del numero di settembre di Musica Jazz. Mentre scrivo non è ancora uscito, ma immagino che lo farà a giorni. Non ricevo jpg dal futuro, ovviamente, mi sono limitato a prenderla dal profilo Facebook di JD Allen: il sassofonista di Detroit è ben contento di essere sulla copertina di una rivista assieme al collega James Brandon Lewis. La cosa mi fa un immenso piacere, perché finalmente trovo un giornale italiano che mette in copertina due musicisti di oggi immersi nel jazz contemporaneo che si evolve dalla sua matrice originaria americana e afro-americana. E’ chiedere troppo? No, in realtà no, ma visto che negli anni a nessuno in Italia sembra esser mai fregato un emerito di (citazioni a caso) Christian Scott, James Carter, Jason Moran, Eric Reed, Orrin Evans, Brian Blade, Mary Halvorson, Eric Revis, Rudresh Mahantappa e tutta una marea di altri, relegati sempre ai margini quando va bene, è un gran bel lusso. Anzi, basandoci sullo spazio concesso dalle riviste, il jazz di oggi dovrebbe ringraziare la new age improvvisata nordica e Paolo Fresu, perché gli americani, poveracci, saprebbero solo fare robetta reazionaria e superata. Eccezion fatta, ovviamente, per gli avanguardisti e i radicali.

Non so se questa copertina sarà la prima di una lunga serie o un episodio estemporaneo, so solo due cose: che tanto per iniziare comprerò il giornale e leggerò con interesse l’articolo, e che molto probabilmente i nostri articoli su JD Allen (varie recensioni e un’intervista) e James Brandon Lewis (una recensione) avranno qualche like in più. Questo perché una cosa, dalle nostre statistiche, possiamo dedurla: tira più una notizia curiosa su un nome arcinoto del passato che cento recensioni di nuovi e possibilmente brillanti giovani musicisti. La cosa fa il paio con l’intervista al negozio Jazzmessegers di due anni fa: “Non ci sono molti nuovi artisti che facciano da traino, oggi. Il motivo è banale: l’industria discografica spende sempre meno per costruire il domani con nuovi nomi. Così posso dire che nell’insieme i bestseller sono le ristampe di alta qualità.” In realtà la questione è persino più problematica: le varie Pi, CrissCross, Blue Note etc si impegnano, ma il pubblico pare poco incline al rischio. E quando i media di settore hanno passato anni a promuovere sempre meno jazz-jazz in favore di eurobrodini o concettose complessità sperimentali, finisce che si diffonde una falsa credenza: che il jazz in quanto tale sia ormai roba del passato e il suo futuro stia in qualsiasi cosa improvvisata coi sassofoni. Anche quando c’entra poco o nulla. Nei festival la cosa si riflette pari pari, con l’aggiunta sempre più frequente di pop star o, peggio ancora, pop star che cercano di darsi un’aura di rispettabilità con progetti pseudojazz.

Trarre conclusioni da questo garbuglio non è semplice. Ne abbozzo una. Esporre ora in copertina due dei più validi esponenti del mainstream potrebbe avere effetti positivi, anzi, lo spero proprio. Perché se il jazz può riprendersi un po’ di spazio, non vedo perché dovrebbe farlo a scapito di chi ancora oggi rappresenta al meglio l’attualità e la storia di questa musica in forma comunque accessibile, senza elitismi non necessari.
(Negrodeath)

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