FREE FALL JAZZ


Ho avuto modo in questi giorni, dopo più di un decennio che non lo facevo, di leggere diverse classifiche jazz di fine anno, tra quelle fruibili in rete e quelle ufficiali su riviste specializzate e mi sono accorto che in questo lungo lasso di tempo in realtà è cambiato poco o nulla nel modo di stilarle, continuando quindi ad averle in uggia come in passato. Questo mi ha suggerito alcune riflessioni provocatorie che vorrei porre all’attenzione di chi avesse la ventura di leggerci. Ovviamente, nel merito, le indicazioni prodotte vanno prese per quel che possono valere e certo non possono essere considerate davvero esaustive dello stato dell’arte della scena jazzistica internazionale, per loro inevitabile parzialità.

D’accordo, la parzialità era ed è inevitabile, ma qui si è davvero esagerato, andando ben oltre, restringendo il campo delle proposte che hanno avuto maggior consenso a limitati ambiti estetici, negando, in modo persino poco rispettoso, l’esistenza di altre, diverse, ma altrettanto importanti, disegnando un quadro in fine volutamente parziale e dando più una immagine di quel che il jazz forse si vorrebbe che fosse, rispetto a quello che in realtà è, magari esteticamente pure a propria immagine e somiglianza. Ne esce perciò nitidamente, e forse involontariamente, una rappresentazione più dei soggetti che hanno prodotto certe scelte, che dei musicisti e dei relativi lavori nominati e, sinceramente, non ci sentiamo di augurare al jazz contemporaneo di specchiarsi nell’immagine di una élite di pseudo intellettuali della musica, magari con l’aria un po’ fighetta, o attrezzati con tanto di barba e occhialetti d’ordinanza, mentre scrivono pretenziosi libri zeppi di apodittiche sopravvalutazioni, associate a vergognose lacune. Di ideologi del jazz dediti più che altro a generare danni culturali ne sono girati anche troppi in questi decenni nel nostro paese e francamente non se ne sente più il bisogno da un pezzo.

Devo dire poi che, in generale, il ristretto ambiente jazzistico nazionale ha saputo dare di sé nell’occasione una rappresentazione plastica assolutamente conforme a quella che è l’immagine odierna dell’Italia, al di là degli annunci e proclami vari che ci tocca sorbire ormai quotidianamente in misura inversamente proporzionale al progresso e alla crescita complessiva del paese, ossia, una nazione sostanzialmente invecchiata nella mente e nello spirito, più che solo anagraficamente, conformista e conservatrice, chiusa in se stessa e poco propensa al confronto dialettico di idee, tendente al pensiero unico, ancorata, nello specifico jazzistico, a visioni musicali per lo più abbondantemente superate, spacciate ancora per innovative, esplicate in diversi casi in un contesto di fasullo e fastidiosamente pretenzioso elitarismo intellettuale, che francamente non ha alcuna ragion d’essere. Il  tutto spesso condito da discrete dosi di provincialismo, sempre pronto ad incensare in modo abbastanza acritico e irrealmente generalizzato un prodotto jazzistico “made in Italy”, spacciato di indiscutibile e improbabile valenza internazionale.

L’unanimismo da pensiero unico intorno al nome di Steve Lehman è d’altronde un cattivo segnale, per quanto giustificato dalla oggettiva valenza del musicista e della proposta, (io stesso l’ho considerato nelle mie personali e senza pretese indicazioni richieste dal nostro sito, peraltro parzialissime, perché onestamente mi è proibitivo avere un quadro davvero completo e seriamente informato sul panorama jazzistico internazionale), sembra esagerato, nemmeno fossimo di fronte al nuovo Duke Ellington del ventunesimo secolo. Mi pare che gli osanna siano comunque prematuri e un po’ di cautela non guasterebbe, come, analogamente, bisognerebbe evitare di prendere ogni produzione del nostro Bollani come parto del suo incommensurabile genio. Per quel che mi riguarda nessun suo disco, compreso quest’ultimo acclamato, riesce a “rimanermi”, ma non invidio chi se ne bea, domandandomi se chi straparla di genialità, abbia mai sentito e davvero compreso la genialità autentica e l’avanguardismo implicito di una composizione come, che so,  Ko Ko di Duke Ellington,  datata 1940. In circa 3 minuti di musica c’è più arte musicale e modernità di tutta la discografia e la inflazionata concertistica del nostro messia del pianoforte, messe insieme.

Colpisce poi, che ormai qualsiasi produzione ECM venga presa di prassi in considerazione. Sintomatica in questo senso è la segnalazione del disco di David Virelles, sorta di artificiosa Cuba “eicherizzata”, in contrapposizione all’assoluto oblio rintracciabile, ad esempio, per Arturo O’Farrill, che ha invece sfornato un lavoro “cubano” di gran lunga musicalmente più ricco ed interessante, tanto da meritare una nomination per il Grammy. Probabilmente da noi non si sa nemmeno chi sia, o, peggio, non ci si degna pregiudizialmente nemmeno di ascoltarlo. Sono certo che a etichette invertite il relativo trattamento critico sarebbe stato opposto. Potere del marketing, o più semplicemente della suggestione, indispensabile requisito della critica carismatica e competente e giusto per non pensar male.
(Riccardo Facchi)

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