FREE FALL JAZZ

In Italia abbiamo due trombettisti che da anni dominano la scena jazzistica nazionale e sono tra i più noti anche all’estero, portati in palmo di mano pressoché da tutti: informazione, critica e gran parte del pubblico, immagine di un sedicente “Made in Italy” jazzistico, sempre più orgogliosamente e autarchicamente esibito. I peana si sprecano, come certi paragoni superficiali con grandi figure storiche del trombettismo jazz. Rava definito come sorta di Miles Davis italiano e Fresu come un Chet Baker a strisce bianco-rosso-verdi (o viceversa, per quanto anche l’accomunare Davis a Baker è un altro tipico, errato, luogo comune che meriterebbe un’analisi a parte), ma stanno davvero così le cose? Certi paragoni hanno una loro giustificazione, o sono solo delle volute esagerazioni, dei falsi miti da dare in pasto al grosso del pubblico dei concerti e dei lettori di riviste e giornali?
Diciamo che entrambi non solo non hanno mai nascosto certe influenze (hanno prodotto più di un disco e un concerto insieme per celebrare Miles e Chet), ma le hanno anche abbondantemente sfruttate, in termini sia di repertorio che nell’uso di alcune modalità esecutive e cliché tipici dei due giganti della tromba jazz, perlomeno quelle che erano assorbibili in rapporto alle loro possibilità tecnico-musicali ed espressive. Mi riferisco in particolare alla loro parte più melodica e melanconica esibita in versioni di ballads note, come “My Funny Valentine” per quanto concerne Davis-Rava, o “You Can’t Go Home Again” per Baker-Fresu, certo non a quella più swingante e ritmica.
Aggiungiamo che entrambi, nonostante il mito nazionalistico che li circonda, sono in sostanza dei semplici epigoni (forse un po’ meno Rava, che anche per personalità carismatica una sua identità e una sua internazionalità l’ha comunque conquistata negli anni, nonostante la sua evidente debole tecnica sullo strumento, inferiore anche a quella di Fresu, come quella di entrambi lo è rispetto alle due icone di riferimento) e solo di una parte ben limitata dell’estetica di Miles e Chet.

Tralasciando per un attimo l’influenza sui nostri baldi eroi di Miles Davis, vorrei concentrarmi più sulla figura di Chet Baker e i luoghi comuni che lo circondano ormai da troppo tempo e troppo spesso vengono alimentati a sproposito.
Uno di questi è che Chet Baker avesse una tecnica trombettistica limitata e solo una grandissima capacità melodica esercitata ed esercitabile per lo più sul registro medio dello strumento e su brani a tempo medio o lento.
Quello che non si evidenzia mai di Baker è che aveva uno spiccatissimo senso del ritmo, mostrabile su brani anche molto veloci e nei quali è più difficoltoso fraseggiare senza aver sviluppato un’ ottima tecnica strumentale,  gestendo coerentemente l’assolo in termini melodico-ritmici. Il fatto è che Baker è stato anche un bopper sopraffino, forse nei primi anni di carriera anche più in gamba dello stesso Davis e non a caso Parker talvolta preferiva Baker a lui. Solo negli ultimi anni, con i grandi problemi esistenziali e le difficoltà tecniche dovute ai problemi dentali e di imboccatura, Chet ha ripiegato preferenzialmente su un repertorio sempre più fatto di brani lenti e melanconici, pur mostrando in alcune occasioni di buono stato di forma le antiche capacità tecniche anche su brani più veloci. Tanto per capirci chiaramente, il Baker a cui si riferiscono i nostri due celebrati jazzisti nazionali è quello melanconico, non l’affermato bopper. Certo, per Baker nulla è paragonabile alle meraviglie tecniche di un Dizzy Gillespie, di un Fats Navarro o un Clifford Brown, parlando giusto di trombettisti suoi coevi, ma Baker ha dimostrato in carriera e in più di una circostanza di saper brillantemente superare certe prove anche sui brani più veloci.

Sono molti i titoli che si potrebbero citare a sostegno di questa tesi, anche dell’ultimo periodo: “Tempus Fugit”, “Four”, “For Minors Only”, “Tidal Breeze”, “E.S.P.”, tra gli altri, ma tra le bellissime incisioni fatte in quintetto con George Coleman a metà anni ’60 e suonate con il flicorno, Baker esibisce alcune autentiche perle solistiche degne dei più grandi trombettisti del bop e dell’hard bop.
Tra queste, vorrei analizzare insieme a voi la sua prestazione in questa versione che includo qui sotto di “Fine and Dandy” (da Smokin’ with The Chet Baker Quintet- Prestige) e che contiene un assolo di rara perfezione e bellezza proprio su un brano preso a tempo di metronomo abbastanza spedito.


 

Il tema del noto standard è costruito su una struttura a 32 battute, del tipo ABAC ed è enunciato da Baker con Coleman che gli fa da controcanto. Inizia quindi il solo di Baker con un primo chorus di “assaggio” suonato con assoluto relax, in cui Baker sembra prendere le misure, poi, nel successivo chorus, esplode letteralmente dal punto di vista ritmico-melodico nella seconda sezione A, con una frase improvvisata di folgorante creatività e bellezza ed impressionante lunghezza, che va ad invadere anche le 4 battute iniziali della sezione C, per una durata complessiva di 12 battute (in termini temporali da 1:23 sino a 1:36 del filmato) senza interruzione del flusso musicale. E’ un’autentica lezione di jazz, piena di swing, con una alternanza di tensione e distensione che è possibile solo a chi possiede grande fantasia e assoluta padronanza dello strumento ed è degna dei migliori assoli di un Charlie Parker, o di un Clifford Brown, volendo restare in esclusivo ambito trombettistico. Il terzo e ultimo chorus del solo di Baker riprende una impostazione simile, dove si ripete con una frase di analoga concezione, ma stavolta solo nell’ambito del secondo A, cioè entro le 8 battute di competenza della sezione.
Da segnalare anche l’eccellente assolo di Coleman (uno dei tanti jazzisti troppo spesso immeritatamente sottovalutati) che dal punto di vista ritmico non è da meno, con un sacco di accenti ritmici in levare durante la sua improvvisazione ricca di swing.
Swing, già, questa parola che per certa critica di oggi, sedicente jazzistica, sembra persino da aborrire, come sinonimo di vecchiume musicale, la stessa critica che poi esalta certi epigoni nazionali dallo swing pressoché assente.

Alzi la mano chi ha mai sentito qualcosa del genere fatto dai nostri acclamati campioni della tromba, sempre più spesso impegnati a fare il verso al Baker melanconico (ma anche a Davis), mettendosi nei concerti in pose plastiche, buone per i fotografi ed esibendo un melos decadente, ripetitivo e sostanzialmente aritmico, che col jazz e la sua sostanziosa tradizione ha poco a che spartire.
La domanda ai jazzofili vecchi e nuovi allora sorge spontanea: “Perché accontentarsi di copie parziali e sbiadite, quando si possono avere ed apprezzare gli originali?”
(Riccardo Facchi)

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