FREE FALL JAZZ

Nico Toscani's Articles

Per risalire all’ultima uscita su Blue Note di Bobby Hutcherson dobbiamo tornare indietro addirittura al 1977, anno dell’ottimo, dimenticato ‘Knucklebean’, in cui il vibrafonista californiano chiamava a sé il mai troppo lodato Freddie Hubbard (il quale navigava in un momento artistico tutt’altro che felice), riportandolo ai livelli che gli competono. L’inaspettato ritorno alla casa madre è stato accolto con un certo clamore; in particolare, molti si aspettavano un ritorno alle sonorità piuttosto elaborate che fecero la fortuna dei suoi capolavori per l’etichetta oggi diretta da Don Was. ‘Enjoy The View’ però non suona come una fotocopia sbiadita di ‘Dialogues’ o ‘Components’, e per fortuna aggiungerei. Agli anni ’60 semmai guarda in altri modi (soul jazz soprattutto, ma anche hard bop e jazz modale), riuscendo a brillare di luce propria con le sue atmosfere “notturne” e rilassate eppure coinvolgenti. (Continua a leggere)

Ho sentito parlare per la prima volta di Sun Ra quando del jazz ancora non sapevo nulla. Le pagine erano quelle di Rockerilla, nel dettaglio un articolo di Bertoncelli che prendeva una pagina intera e provava a tratteggiare un profilo del musicista in occasione dell’opera di recupero (portata avanti dalla Evidence) di parte del suo sterminato catalogo. (Continua a leggere)

Lo scorso Aprile Carlo Loffredo ha tagliato il traguardo dei 90 anni. Personalmente, lo conoscevo solo per i lunghi trascorsi musicali: pioniere del jazz in Italia, da contrabbassista ha fondato entrambe le versioni della Roman New Orleans Jazz Band e ha prestato i suoi servigi a numerose trasmissioni Rai degli anni ’50/’60 nonchè ad altri artisti (tra cui Jula De Palma). Leggere la sua autobiografia (risalente al 2008) permette di scoprire, dietro al musicista, un personaggio interessantissimo e, soprattutto, simpatico. D’altronde, come non stimare un ultraottantenne che si siede alla sua vecchia Olivetti e batte pagine su pagine di memorie anziché affidarsi al classico ghost writer? Ancor di più se quelle memorie sono autentici pezzi di storia non solo della musica che ci piace, ma di una città intera.

Sì, perché questo libro, oltre a raccontare di come il jazz ha piano piano preso piede nella capitale (in questo è un compendio superlativo a ‘Stasera Jazz‘ di Polillo, che, tra le altre cose, racconta come la musica nera americana sia arrivata in quel di Milano), è anche un ritratto della vita a Roma dal secondo dopoguerra in poi. Eventi raccontati, anche nei momenti più duri, con uno stile spigliato e scorrevole, sempre col sorriso sulle labbra e con buona dose di umorismo: dal titolo che simboleggia l’idiosincrasia del contrabbassista verso la notissima cantante alla minuziosa ricostruzione di una mappa dei bordelli capitolini prima che venissero dichiarati fuorilegge. Basteranno poche pagine a conquistarvi e farvi desiderare che Carlo Loffredo sia il vostro zio preferito che snocciola i suoi migliori aneddoti durante i pranzi di famiglia. Massimo rispetto. (Nico Toscani)

Che firmare autografi non fosse l’attività preferita di Miles Davis è risaputo, infatti i pochi riusciti nell’impresa di strappargli una firma la conservano come una preziosa reliquia. Quanto preziosa lo scopriamo oggi su Ebay. Sul noto sito di  aste online è infatti apparso un vinile di ‘Kind Of Blue’ il cui retrocopertina presenta dediche non solo di Miles ma anche del batterista Jimmie Cobb.

“To Leo, Miles Davis, thank you” e “Best wishes, Jimmie Cobb, July 3rd 1960”: il venditore spiega che gli autografi sono stati ottenuti al Blackhawk jazz club di San Francisco dal padre del possessore del disco, che avrebbe approcciato i musicisti al bar prima dell’inizio del loro secondo set. Soprattutto, il disco viene presentato come l’unica copia autografata di ‘Kind Of Blue’ mai ufficialmente rintracciata. Il tutto proposto alla modica cifra di 35.000 dollari; circa 26.204,47, spiega Ebay, aggiungendo che 41 utenti stanno osservando questo oggetto.

Stiamo seriamente pensando di mettere in vendita una copia autografata del disco di Erminio Furlo.

Della calata italiana di Tom Harrell ha già raccontato con dovizia di particolari l’amico Negrodeath, che ha presenziato alla data di La Spezia. Mi sarebbe piaciuto completare il discorso riferendovi anche della sua partecipazione venerdì scorso a Pomigliano Jazz (che da quest’anno torna in Luglio come ai vecchi tempi), ma purtroppo, per motivi che un po’ ci imbarazza raccontare, non eravamo presenti. Sorvoliamo. C’eravamo però il giorno dopo, quando la serata è stata aperta dalla sorpresa Tricatiempo, quintetto campano che in un’ora fittissima di concerto incuriosisce e convince. (Continua a leggere)

Di Jack McDuff è facilissimo ricordare la selva di classici sfornati su Prestige nei primi anni ’60 (ottimo ‘Brother Jack Meets The Boss’, in compagnia del grande Gene Ammons), che lo hanno consacrato come uno dei più importanti organisti soul jazz, dallo stile quadrato e innervato di blues. Il ripescaggio che andiamo a proporvi è decisamente meno noto e richiede un balzo in avanti di almeno 25 anni: è infatti il 1988 quando, dopo un periodo di assenza piuttosto prolungato (sorte in quel periodo comune a quasi tutti i campioni degli anni ’50 e ’60), “Brother” Jack decide di ribattezzarsi “Captain” e tornare sulle scene con un nuovo disco. La buona notizia è che ‘The Reentry’, programmaticamente intitolato, del periodo in cui esce non ha nulla, se non la produzione piuttosto cristallina (caratteristica peraltro comune a quasi tutte le produzioni della Muse, etichetta che patrocina questo nuovo capitolo): niente riferimenti fusion (genere a cui negli anni ’70 l’organista aveva strizzato l’occhio con risultati da dimenticare), niente tastiere plasticose, niente sassofoni smooth. (Continua a leggere)

Jimmy Scott è morto ieri. Avrebbe compiuto 89 anni tra poco più di un mese e, scusate se suona retorico, ci mancherà tanto.

Anziché lanciarmi nei soliti coccodrilli di rito, vi invito a rileggere quanto abbiamo scritto su di lui su queste pagine:

-We all bow at the altar of Jimmy Scott

-What year did Little Jimmy Scott record ‘Evening In Paradise’?

E, soprattutto, a rivederlo mentre canta ‘Sycamore Trees’. Adesso sarà nella loggia bianca o in quella nera?


Il Record Store Day è passato anche quest’anno e sul suo conto se ne sono sentite in abbondanza. Questo lunedì festivo tuttavia allunga il weekend quel tanto che basta per permetterci di aggiungere ancora qualcosa sull’argomento. Sperando non ne abbiate le tasche piene, ovviamente.

Vorrei partire dalla fine: il negozio di dischi è ormai obsoleto sentenziava il socio Negrodeath alla fine della sua analisi. Un’osservazione vera soltanto in parte, visto che secondo me i paletti non sono così rigidi e una “convivenza” tra negozi reali e virtuali un senso ce l’avrebbe anche. Fondamentalmente dipende da che tipo di dischi cerchiamo, ma andiamo con ordine. (Continua a leggere)

“Ascoltai quello che mi sembrava un sax tenore. Il chitarrista lo vedevo ma non lo sentivo, chiesi dove fosse. Poi mi resi conto che quel suono, quella specie di sassofono, usciva da uno spartano amplificatore attaccato a una chitarra. Era la cosa più stupefacente che avessi mai sentito. Mi ispirò così tanto, tutto ciò che volevo fare era imitarlo”.

Quel chitarrista era un Charlie Christian poco più che ventenne ricordato dalle parole di Mary Osborne, ragazza del North Dakota che quella sera del 1938 di anni ne aveva soltanto 17 e già da un po’ si cimentava con la chitarra, folgorata da Django Reinhardt. Proprio la comune passione per il chitarrista manouche si sarebbe rivelata base di una solida amicizia tra i due, con Christian che si trasformerà in una sorta di mentore per la ragazza, guidandola nell’acquisto della sua prima chitarra elettrica. Siamo in tempi assolutamente pionieristici: prima di loro due in ambito strettamente jazz l’unico ad aver già adottato un’innovazione di quel tipo era Eddie Durham con i Kansas City Six di Lester Young. (Continua a leggere)

I Foursome da Bologna si inseriscono perfettamente in quella nidiata di nuovi jazzisti tricolore di cui spesso ci siamo ritrovati a parlare su queste pagine. Musicisti che parlano linguaggi tra loro a volte anche assai diversi, accomunati però da almeno almeno un paio di assunti: l’età relativamente giovane e una predisposizione alla contaminazione in cerca di idee fresche (che non si trasformano in una scusa per sciorinare pretenziosità, come talvolta accade). E poi, ovviamente, la passione per il jazz. Tutti elementi che nei Foursome non facciamo fatica a individuare, basti pensare che le cover presenti nelle loro scalette live spaziano da Benny Golson ai Kraftwerk.

La formazione è atipica: tromba e trombone supportati da batteria e hammond. Proprio quest’ultimo, a cura di Giulio Stermieri (autore di tutti e sette i brani in scaletta) è il fulcro del sound, sdoppiandosi in più ruoli (Continua a leggere)

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