FREE FALL JAZZ


1986. ‘I Robinson’ è lo show televisivo più seguito d’America (resterà al comando della classifica dei rating per quattro stagioni consecutive. Merito di Kenny?). Giuro che non lo faccio apposta a tirare in ballo Bill Cosby così puntualmente: mai come stavolta il suo telefilm è di fondamentale importanza per la storia che andiamo a raccontare. Il 15 Maggio, l’episodio finale della seconda stagione si apre con una scena del tutto ininfluente ai fini della trama: Cliff e sua moglie ascoltano una canzone e, divergenti,  scommettono sull’anno dell’incisione. Si tratta di ‘An Evening In Paradise’ di Little Jimmy Scott.

Quando va in onda quell’episodio Jimmy si è ritirato da oltre dieci anni, reduce da una carriera trascorsa più in beghe legali che in sala d’incisione a causa di incomprensioni con Herman Lubinsky, grande capo della Savoy Records, che non ha bene idea di come gestire una figura così particolare in un mercato dove le grandi voci del jazz, sia maschili che femminili, seguono canoni piuttosto rigidi. Tornato nella sua Cleveland, parte di quegli anni lontano dalle scene Jimmy li trascorre accudendo il padre, colpito da ischemie: “Avevo comunque le bollette da pagare: mi mantenevo facendo piccoli lavori. Sono stato impiegato presso diversi hotel e ristoranti, ma anche in una casa di riposo. Era necessario per mantenermi a galla e tenere la mia vita in ordine”. Manco sempre, a dir la verità: gli stenti restano dietro l’angolo e a volte persino cenare diventa un problema. Stabilitosi nel New Jersey, ogni tanto nei weekend si reca a New York o Philadelphia e canta ancora, ma la sua musica resta culto per pochissimi, tanto che un certo punto sarà costretto a smentire la notizia della sua morte data da una radio della sua città a un ascoltatore che chiede lumi.

Nel 1986 quella scommessa tra Cliff e Clair Robinson accende una piccola miccia: “Ancora oggi ricevo i diritti d’autore per la canzone usata in quell’episodio. È stata la prima volta in cui abbia mai ricevuto delle royalties o qualunque tipo di considerazione”. Sulla scia di quel piccolo entusiasmo, Jimmy prova a rientrare, seppure in punta di piedi: accompagnato da un nuovo gruppo di musicisti, i Jazz Expressions, inizia pian piano ad intensificare le esibizioni, ma i riscontri sono ancora pochi. Qualcuno sembra finalmente ricordarsi di lui quando, nel 1989, gli viene assegnato dalla R&B  Foundation un premio alla carriera (‘Lifetime Achievment Award’) di 15.000 dollari. Anziché godersi la sommetta, Jimmy spende praticamente tutti i soldi per foraggiare il suo sogno: fondare un’etichetta discografica. In realtà definire “etichetta” la J’s Way sarebbe un azzardo: si tratta solo di un marchio impresso su dischi stampati privatamente, venduti più che altro in occasione dei concerti e senza alcun tipo di promozione se non un timido passaparola tra appassionati locali. Una specie di suicidio commerciale, ma Little Jimmy non è interessato ai soldi: vuole solo dare la possibilità di incidere (nei più economici studi locali, per poter “spremere” più sessioni possibile dal budget) a musicisti che ritiene meritevoli, sperando di poter inferire un’utopica svolta alle loro carriere. Si tratta per lo più di vecchi amici, veterani che per un motivo o per l’altro non sono mai riusciti ad andare oltre una sudata gavetta o poco più, come l’ottimo tenorista Harold Ousley, uno che tra i ’40 e i tardi ’60 ha fatto da spalla a parecchi nomi grossi, ma quando viene “riesumato” da Scott è fuori dal giro da due decadi.

Tra le varie uscite della J’s Way, il nostro decide di imbarcarsi nell’autoproduzione di un nuovo album per sé stesso, cimentandosi, in alcuni brani, anche come autore. Dall’ultima volta che ha inciso in studio sono ormai trascorsi diciotto anni, ma ‘Doesn’t Love Mean More’ non sa neanche lontanamente di ruggine. La produzione è ovviamente senza fronzoli, al limite dello spartano, ma cattura nel modo più fedele possibile la voce di Jimmy, un po’ segnata dal tempo ma ancora unica e in grado di emozionare come se il tempo non fosse mai passato. I Jazz Expressions sono più giovani di lui, eppure suonano col piglio dei veterani, dimostrando di aver assimilato bene la lezione: soprattutto il bassista Hilliard Green e il sassofonista Alvin Flythe, ma anche il pianista giapponese Kenichi Shimazu, che produce tre strumentali. Nonostante ciò, l’album non trova un distributore interessato a prenderlo in consegna e fa la fine di tutti gli altri dischi della J’s Way: buona parte delle copie originali (esiste anche una ristampa giapponese di una decina d’anni dopo) giace tuttora nel garage di Jimmy. L’appuntamento col destino, però, è solo rimandato. (Nico Toscani)

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