FREE FALL JAZZ

Su Little Jimmy Scott avevo scritto un altro articolo. L’ho letto e riletto, ma non mi piaceva. Non lasciava trasparire bene il punto centrale della questione: la musica, quella di una delle voci più singolari del jazz. Magari limerò quello scritto e lo trasformerò in un 2.0, una sorta di compendio a queste righe. Non vi tedierò qui coi perché e i percome: per chi non è familiare col personaggio sia sufficiente sapere che la voce acuta e i tratti androgini sono imputabili a una malattia genetica, la Sindrome di Kalmann, che impedisce il completamento della pubertà. Né mi perderò in lunghe escursioni per spiegare i motivi per cui resta quasi due decadi lontano dai riflettori, sotto i quali viene riportato da David Lynch. È il 10 Giugno del 1991, il giorno dell’ultimo episodio di Twin Peaks. In quelli che probabilmente sono i 45 minuti più genuinamente “sbroccati” mai trasmessi dalla TV prime time, all’improvviso sbuca fuori Little Jimmy Scott in un’impressionante interpretazione di ‘Sycamore Trees’, testo del regista americano su musica del fido Angelo Badalamenti. Ricomincia tutto.

Da quel momento sono passati vent’anni e Jimmy Scott ha sfornato una manciata di dischi, tutti più o meno meritevoli: per questo ripescaggio abbiamo scelto la coppia che riteniamo più rappresentativa. ‘All The Way’ (Sire, 1992) è l’album del ritorno: copertina che ammicca a Twin Peaks, produzione affidata a Tommy LiPuma, la mano smaliziata che pochi mesi prima aveva reso ‘Unforgettable… With Love’ di Natalie Cole un successo milionario. Tutto sembra studiato minuziosamente per sfruttare la ritrovata popolarità del personaggio (persino Lou Reed lo vorrà come ospite sul suo ‘Magic & Loss’), ma alla forma per una volta corrisponde tanta sostanza: Jimmy dimostra di non essere più “Little” (per quanto il soprannome derivasse solo dall’aspetto fanciullesco). La musica è, prevedibilmente, un jazz soffuso e pacato: ballad guidate sempre dal piano, innervate da orchestrazioni talvolta dispensabili, ma che restano sempre contorno, così come in punta di piedi arrivano di tanto in tanto il sax (courtesy di Dave ‘Fathead’ Newman, del quale speriamo di riparlarvi in tempi brevi) e una “morbida” sezione ritmica. Niente per cui gridare al miracolo, non fosse per la voce. Quella voce. Personale e struggente, capace di impreziosire le ennesime versioni di ‘My Foolish Heart’ o ‘Angel Eyes’ al punto da competere ad armi praticamente pari con quelle che hanno fatto la storia, ma sempre con il rispetto di chi la musica la ama: insomma, una voce che, per quanto colossale, si mette al servizio della canzone e non la usa come mero trampolino per sciorinare le proprie virtù. Gli varrà una nomination ai Grammy. Niente male per uno che fino a qualche anno prima lavorava in hotel e ristoranti per far quadrare i conti.

Vette ancora più alte si toccano qualche anno dopo con ‘Holding Back The Years’ (Artists Only, 1998), uscita che però farà storcere il naso a qualche purista. Di certo quando un musicista jazz finisce a rileggere classici del pop contemporaneo il più delle volte si tratta di un viatico per l’incasso facile (una volta era diverso: decine e decine di storici brani jazz sono nati improvvisando su vecchie canzoni pop); in questo caso specifico però parliamo di un prodotto comunque troppo “ricercato” per essere abbracciato fino in fondo dal mainstream, specie a causa del cantato di Jimmy: eccezionale, ma di certo (e per fortuna, aggiungiamo) non “commerciabile” quanto un Michael Bublé a caso, ed è indicativo notare in tal senso come lo stesso ‘All The Way’, nonostante la nomination ai Grammy, abbia venduto solamente 50.000 copie. Qualunque processo alle intenzioni è comunque destinato a crollare come un castello di carte nel momento in cui la musica diventa il fulcro del discorso: Jimmy si appropria dei brani e se li cuce sulla pelle, li fa suoi con una naturalezza raramente riscontrabile in questo tipo di operazioni. E allora la ‘Slave To Love’ che fu di Bryan Ferry si trasforma in una ballata struggente e disperata, carica di un emotività “da groppo in gola” che alla fine pervade quasi tutto il lavoro, dalla lennoniana ‘Jealous Guy’ alla ‘Nothing Compares 2 U’ portata al successo da Sinead O’Connor. Impossibile, per ovvi motivi, imbastire paragoni con le originali, quel che è certo è che l’interpretazione di Jimmy Scott spesso conferisce alle composizioni davvero qualcosa “in più”, è il caso ad esempio della title-track, pescata dal repertorio dei Simply Red, ma soprattutto di una ‘Almost Blue’ firmata Elvis Costello, che in questa sede acquista una cupezza tale da mettere KO un vincitore della Lotteria Italia. All’ottima riuscita contribuiscono anche scelte molto felici in cabina di regia, dove la mano di Gerry McCarthy e Dale Ashley ben figura. Lo strumento principe resta il pianoforte, ma rispetto a ‘All The Way’ vengono scelti suoni più “spigolosi” e moderni che, oltre a far guadagnare freschezza all’insieme, permettono agli interventi di chitarra, sax e sezione ritmica di risultare molto più incisivi.

“Tutti dobbiamo inchinarci all’altare di Jimmy Scott”, disse Lou Reed quando aveva ancora un po’ di credibilità: e sì che aveva ragione. Se mai ci sia stata musica per la quale ha senso l’aggettivo “commovente”, questa è la sua. Non è un iperbole. (Nico Toscani)

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