FREE FALL JAZZ

Interviste's Articles

Abbiamo parlato bene de ‘Il Partenzista’, album di debutto del batterista ligure Lorenzo Capello. Ci siamo anche riproposti di chiedere a Lorenzo qualcosa sullo stravagante titolo, e difatti la lunga intervista che segue parla dello strano neologismo, di tutto e di più, con tanta ironia e poca voglia di prendersi sul serio. Proprio per questo, forse, si va d’accordo. Ma anche perché Lorenzo è un bravo musicista che merita più di una chance!

Partiamo con l’abc, ovvero: le presentazioni!
Eccomi, ciao a tutti, son Lorenzo Capello, batterista e compositore di Riva Trigoso, un piccolo paese sul mare in provincia di Genova. Suono da una ventina d’anni, anche danni, e ho fatto parte di formazioni di stili e ispirazioni diversi, dal rock al jazz al folk balcanico a svariate altre cose. Da un po’ di anni avevo in mente di registrare un disco mio, dove avessi avuto la responsabilità abbastanza totale delle note e delle ignote che poi la gente avrebbe ascoltato.  (Continua a leggere)

“Il carbonio è un elemento notevole per vari motivi. Le sue differenti forme includono una delle più morbide (grafite) e una delle più dure (diamanti) sostanze conosciute dall’uomo. Inoltre, ha una grande affinità per i legami chimici con altri atomi leggeri, tra cui il carbonio stesso, e le sue piccole dimensioni lo rendono in grado di formare legami multipli […]. Queste proprietà permettono l’esistenza di 10 milioni di composti del carbonio” (estratto da Wikipedia.org alla voce “Carbonio”). Non credo ci sia metafora migliore per definire il mondo musicale di Mirko Onofrio: musicista, compositore, arrangiatore e gran geniaccio capace di danzare sul filo del rasoio, in bilico tra materiali musicali diversissimi, ma con naturalezza, competenza e grande cuore. Duro come un diamante, sperimentale e violento, ma anche morbido come la grafite, autore e arrangiatore di canzoni. La sua immaginazione vulcanica crea legami chimico/musicali imprevedibili: il nostro eroe è implicato in ogni tipo di collaborazione e si trova a dialogare con musicisti classici, jazzisti, DJ, rockettari, attori, ballerini in calzamaglia, urlatori, autori e cantautori, videomakers, registi.

Da tre anni collabora (come polistrumentista ed arrangiatore) con Dario Brunori, cantautore calabrese che, spiega Mirko, “ha esportato in tutta l’Italia il suo progetto senza mettere per forza avanti argomenti come il peperoncino, la ‘nduja o la ‘ndrangheta e colpendo così dritto al cuore di un pubblico decisamente esteso e trasversale” …E poi? (Continua a leggere)

Chi ci legge sarà di certo familiare col nome di Carlo Cimino: è uno “dei nostri”. Oltre ad aiutarci ad imbrattare queste pagine però, il buon Carlo suona anche il contrabbasso con gli Amanita, il cui debutto ‘Gente A Sud’ (Zone Di Musica, 2011) si è rivelato proprio un bel dischetto. E non fate i malpensanti: non lo diciamo “perché è un amico”, anzi, sarebbe stato un vero peccato non parlarvene solo per questo. Assieme a lui ci sono il chitarrista Raul Gagliardi e il batterista Maurizio Mirabelli, a chiudere un triangolo che può sembrare un limite solo ai meno attenti: “La scelta del trio è anche indirizzata verso possibili aperture in futuro: possibili ospiti che proprio una formazione come questa ti permette di accogliere senza nessun problema. A volte capita di suonare con degli strumenti a fiato e la cosa non ci dispiace affatto, anzi!”. Il loro è un jazz dalle sonorità “delicate” e a tratti persino malinconiche, ma capace anche della zampata graffiante al momento opportuno; protagonista è soprattutto l’interazione tra la compatta sezione ritmica (che pure si ritaglia i suoi spazi in prima fila) e la solista di Gagliardi, il cui tocco mi ricorda in parte quello del veterano Jim Hall: “Massimo rispetto per lui – precisa il chitarrista – ma non vi è un unico riferimento chitarristico. Apprezzo molti chitarristi diversi: da Wes Montgomery a Scofield, da Frisell a Django, da Metheny a Rosenwinckel, ma ascolto anche musica priva di chitarra e non mi cambia molto. Di solito valuto la musica pezzo per pezzo, e nel gusto una parte importante la occupa la composizione in sé. Non mi pongo tanti problemi se un pezzo viene dal rock o dal pop, o se è cantato o strumentale”. (Continua a leggere)

Probabilmente avrete letto suoi articoli sulle riviste jazz di tiratura nazionale, altrettanto probabilmente avrete assistito a concerti organizzati da lui. Forse siete stati suoi allievi. Critico musicale, direttore artistico, (ex) professore di musica, Gianni Morelenbaum Gualberto è una figura coraggiosa nel panorama musicale, e più in generale culturale, italiano. Tuttavia ha accettato di buon grado l’interrogatorio di Free Fall Jazz, spaziando in lungo e in largo, oltre i confini del jazz fino a lambire… beh, se lo scrivo qui poi non leggete niente. Quindi, preparatevi: 1,2,3, after the jump!

Una breve presentazione, tanto per cominciare.
Dirigo da diciassette anni “Aperitivo in Concerto“, ho insegnato (con molti dubbi) Storia della Musica all’Università Bocconi (un’istituzione sulla quale nutro alcune perplessità…), lavoro eminentemente, ai giorni d’oggi, in Brasile, come consulente artistico per una serie di manifestazioni culturali promosse dal governo brasiliano. (Continua a leggere)


A molti piace denigrare tutto ciò che sia mainstream jazz, cioè quella corrente radicata nell’hard bop e che si è sviluppata accogliendo al suo interno, con la giusta misura, i frutti della musica nata dopo e attorno – dal free jazz al funk al soul passando per la composizione orchestrale, alla perenne ricerca dell’equilibrio fra scrittura sempre più evoluta e improvvisazione. È la corrente principale, il jazz per eccellenza ancora oggi, e sapete una cosa? È bello e vanta un foltissimo numero di praticanti, quasi sempre di altissimo livello. E di debutti eccellenti abbiamo perso il conto. Dopo questa introduzione a base di polemica gratuita, aggiungiamo al novero delle brillanti promesse Chris Massey, giovane batterista che risponde con simpatia e dovizia di particolari alle nostre domande. Tutti i particolari e i retroscena dell’ottimo ‘Vibrainium’, sulla vita del musicista e sul business visto da dentro vi aspet… anzi, no, leggete. (Continua a leggere)


Spazio Clang! Artisti che cercano (e trovano) spazio per fare, proporre, creare una rete, incontrarsi. Nei fumetti quando il metallo sbatacchia, sferraglia o colpisce fa “Clang!”: loro hanno già colpito e non esiteranno a farlo nuovamente. Rappresentano una minaccia? Chi si nasconde dietro questa sigla? Li abbiamo incontrati e conosciuti: ecco cosa ne è uscito fuori.

Ciao Spazio Clang! Chi sei? Cosa vuoi? Dove sei?
Spazio Clang è un’associazione di promozione sociale, nata circa un anno fa dalla volonta’ di un guppo di amici, colleghi musicisti e perfomer. La nostra esigenza è quella di far succedere qualcosa di nuovo e particolare nella città, Padova, in cui tutti viviamo; una città culturalmente attiva ma in cui sentivamo la mancanza di attività un po’ più di ricerca e di sperimentazione, che potessero mettere in rete sia argomenti che realtà diverse, come anche il poter portare nel nostro territorio modalità di approccio alla tradizione o a tematiche, anche tecniche, un po’ diverse da quelle didatticamente più diffuse. Non abbiamo per il momento una sede vera e propria, ma da novembre possiamo utilizzare nei fine settimana uno spazio concessoci gentilmente dal Consiglio di Quartiere n.5 di Padova. (Continua a leggere)

Se la vostra immagine mentale del percussionista è ferma al capellone afro coi pantaloni a zampa che suona le congas a petto nudo… beh, allora è il caso di aprirsi a nuovi orizzonti! Conoscere Leon Pantarei e la sua musica è un’occasione da non perdere: musicista aperto e colto, accoglie nelle sue corde il dub, l’elettronica, il jazz e tanta musica etnica, da Cuba al Pakistan.

Decliniamo al passato: l’etno-dub e i successi con CNI, la tua attività di turnista live e in studio anche in ambito “pop”… Che ricordi hai? Cosa ti è rimasto?
Molto, anzi, direi moltissimo. La storia di Pantarei è stata bellissima e mi ha dato molte soddisfazioni, soprattutto ha sviluppato e perfezionato le mie capacità di autore di musica e testo all’interno di una forma che, pur con tutti i distinguo del mondo “indie”, può essere definita canzone. Poi, di grande importanza e’ il rapporto, che con il progetto Pantarei ho approfondito moltissimo, tra psichedelia del ritmo e concezione psichedelica e mantrica della dance, in un contesto di melting pot percussivo capace di unire il son latino, i ritmi carioca e le pulsazioni orientali, tipo i tala indiani, il konnakhol ed il maquam araboarmeni, il tutto remixato col reggae e il dub, chiaramente. Mi sento una sorta di portabandiera della “contaminazione”: per me, nel terzo millennio, la radicalizzazione della filologia o del monotematismo espressivo suona quasi come una “bestemmia creativa”, come un limite allo sviluppo dei linguaggi. Da sempre sono ossessionato dalla ricerca dell’originalità e, a mio avviso, il massimo dell’originalità non può che scaturire dalla ricombinazione degli elementi o dalla sintesi fra i linguaggi. (Continua a leggere)

Sassofonista iper-post-modale dalla notevole cattiveria, direttore di grandi orchestre con cori annessi, compositore, direttore artistico (ricordiamo tra gli altri i festival Jazz E Altro, Oltre Il Jazz e Paola In Jazz), ex sindacalista tuttora incazzato, coordinatore del Dipartimento di Jazz del Conservatorio di Cosenza, padre affettuoso e marito fedele. Nicola Pisani è certamente un personaggio da intervistare: ecco cosa ne è uscito fuori.

Ho ascoltato con curiosità il disco ‘Sequenze Armoniche – Some Gregorian Reflections’ della Dolmen Orchestra (da te diretta): vuoi parlarci un po’ della sua genesi?
Nasce per caso, come molte cose che rimangono poi nella tua vita. Mi piace comporre per organici grandi, pescare in tutto ciò che mi incuriosisce, interagire con gli altri e soprattutto condividerne i processi creativi. La Dolmen era un laboratorio di improvvisazione e composizione, e tutto nasce dalla curiosità di unire questo con le grandi cattedrali romaniche che abbiamo in Puglia. Mettici il mio passato da corista, la necessità di avere un forte stimolo creativo da qualcosa che avesse a che fare con il mio territorio e la mia storia musicale, risultato in un leit motif o cantus firmus, che dir si voglia: il gregoriano ‘Victimae Paschali Laudes’, bistrattato da un gruppo di jazzaroli ed eseguito in bellissime cattedrali, quelle di Barletta, Bari e Molfetta, il tutto impreziosito da Michel Godard, John Surman e Linda Bsirì. (Continua a leggere)

Qualche domandina per conoscere Note Di Colore, sigla dietro la quale si annida gente che ha l’ardire di proporre eventi jazz al tempo della crisi; e, come se non bastasse, cerca anche di presentare quei musicisti e quei gruppi che qualcuno ancora si ostina a definire volgarmente “emergenti”. Ecco cosa ne è uscito fuori.

Ciao Note di Colore! Chi si “nasconde” lì dietro? Quanti siete? Cosa fate?
Hai detto bene: si “nasconde”. In effetti tendiamo sempre a restare dietro le quinte: è un po’ il nostro stile, come credo dovrebbe fare un organizzatore che voglia essere professionale, lasciando spazio ai veri protagonisti delle iniziative, che sono la musica, l’arte, gli artisti. Dietro a Note si celano due sole persone: io, Manuela Angelini, e Francesco Re, compagni nella vita e nel lavoro. Posso garantire che anche due sole persone riescono a smuovere montagne se credono in qualcosa! Viviamo nelle Marche, nella città di San Benedetto del Tronto (AP), un bel posto di mare che crediamo abbia molte potenzialità da sfruttare per il nostro lavoro. Entrambi proveniamo dall’ambiente giuridico, laureati in legge  – io poi, non paga, ho conseguito una seconda laurea in lettere-discipline della musica e dello spettacolo – abbiamo da sempre coltivato la comune passione per la musica fin dagli anni universitari. Dopo la laurea, alcune esperienze lavorative nel settore hanno fortificato questa passione e ci hanno spinto a fare il passo: creare noi un’organizzazione che si occupasse di eventi musicali, teatrali e artistici. Un po’ di esperienza l’avevamo fatta, la conoscenza delle leggi in questo campo aiuta moltissimo, la passione c’è sempre stata e ci è sembrato che gli ingredienti ci fossero tutti. (Continua a leggere)


‘Planetary Unknown’ è stata una delle note più liete dell’anno appena trascorso. Non solo dal punto di vista musicale, per l’ennesima buona prova di musicisti che ormai da tempo sono garanzia di qualità, quanto anche per la gioia di rivedere con un sassofono tra le labbra il leader di quella formazione, David S. Ware, reduce da un delicato trapianto di rene. Che della sua musica ne avremmo riparlato a fondo l’avevamo promesso al tempo del suo documentario ‘A World Of Music’, e dunque quale migliore occasione di un’approfondita intervista? Per chi non fosse particolarmente familiare con la sua proposta, possiamo innanzitutto dire che Ware va inquadrato in quel gruppo di musicisti che hanno animato la scena free newyorkese tra la fine degli anni ’60 e il decennio successivo, differenziandosi però da molti colleghi per una ricerca sonora che non perde mai troppo di vista l’amore per la melodia. Collaborazioni importanti con Cecil Taylor e Andrew Cyrille hanno contribuito a forgiarne quello stile personale e riconoscibilissimo sbocciato poi definitivamente nei lavori pubblicati a suo nome. Inizialmente in trio, è col quartetto che Ware trova infine la quadratura del cerchio: a fargli (più o meno regolarmente) compagnia pezzi da novanta come il fido William Parker al basso e il pianista Matthew Shipp, più uno stuolo di batteristi tra i quali Susie Ibarra e Muhammad Ali, per dirne solo due. È forse ‘Flight Of I’ del 1992 il più rappresentativo di una discografia ricca di titoli di qualità, la quale, come egli stesso ribadisce durante l’intervista, resta prova concreta di come free jazz e tradizione siano concetti tutt’altro che antipodici.

Cos’è per te, il jazz?
Un modo per esprimere sé stessi attraverso uno strumento musicale in maniera armoniosa, ma anche molto creativa. La creatività ne è la parte più grande: per quanto possibile, uno dovrebbe cercare di non ripetersi. È qualcosa di universale, il jazz. Può elevare il tuo spirito.

È per questo che la spiritualità è un tema così ricorrente nella tua musica come in quella di molti altri jazzisti, da Coltrane a Sanders, passando per Ayler e Sun Ra?
La spiritualità si manifesta attraverso ognuno, indistintamente, magari non sempre allo stesso modo. I musicisti non fanno eccezione, chiaro. E poi dà un senso ad ogni cosa: senza di essa, nulla ha significato. È la base di tutto. (Continua a leggere)

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