FREE FALL JAZZ

Sapete cos’è un partenzista? No? Nemmeno noi, fino al momento di leggere titolo e note di questo cd. Sarebbe il contrario dell’arrivista: quest’ultimo vuole arrivare a qualcosa, a qualche risultato, e per questo si mette in moto, mentre il partenzista vuole gustare l’esperienza del viaggio in quanto tale. Chiariremo meglio in seduta d’intervista con Lorenzo Capello, batterista ligure alla sua prima prova discografica come leader dopo molte collaborazioni, anche prestigiose, in ambito jazz, rock e accademico, tanto in Italia quanto all’estero. Una formazione eclettica, insomma, che probabilmente ha fornito a Capello una grande quantità di stimoli per la prima sortita in proprio. Il viaggio del partenzista, affiancato da piano, contrabbasso, sax e trombone, si snoda attraverso svariate sonorità e innumerevoli input, anche se l’ossatura può essere ricondotta a Charles Mingus (quello meno irruento di ‘East Coasting’) e a certi album di Max Roach come ‘Deeds Not Words’ e ‘Percussion Bitter Sweet’.

L’hard bop sui generis dei due maestri americani succitati, con i registri bassi spesso in caratteristico primo piano, è un riferimento senza essere una gabbia, perché il disco assume connotati quasi cinematografici – sembra di ascoltare la colonna sonora di qualche film immaginario, un film magari grottesco e un po’ surreale. E qui ci viene in soccorso l’opera di un grande surrealista della musica, ovvero Frank Zappa, il cui stile compositivo fatto di vignette ed episodi concatenati con effetto buffo e straniante pare esser stata metabolizzata come si deve da Capello. ‘Il Partenzista’ si apre con l’atmosfera misteriosa e un po’ folle di ‘Martin Myster vs. Doctor Alzheimer’, ritmicamente stimolante e complessa, con un bel dialogo di fiati/attori sempre sopra le righe e una “assenza di tema” che genera una serie di trasformazioni a catena. Molto bella ‘Il Circo di Fine Anno’, un lungo brano di ispirazione circense periodicamente “sabotato” dal tema di ‘America’ di Leonard Bernstein, così come ‘Everybody’s Drug’ che ricorda un po’ il vecchio prog rock e cita i Pink Floyd riuscendo miracolosamente, date le premesse, a non annoiare a morte. Ma più che questo o quel pezzo, in linea con il titolo, quello che conta è il percorso di viaggio con le sue mille tappe piene di sorprese. Forse per una diabolica legge del contrappasso l’ultimo brano, la title track, è l’unico che non funziona: un pretenzioso monologo teatrale su un raffinato gioco a incastri di due batterie. Ma vista la brillantezza del resto si può pure chiudere un occhio.

In conclusione, un album davvero riuscito, ricchissimo nei suoni e nelle atmosfere, e sempre interessante dal punto di vista di composizione ed esecuzione. E chissà dal vivo!
(Negrodeath)

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