FREE FALL JAZZ


A molti piace denigrare tutto ciò che sia mainstream jazz, cioè quella corrente radicata nell’hard bop e che si è sviluppata accogliendo al suo interno, con la giusta misura, i frutti della musica nata dopo e attorno – dal free jazz al funk al soul passando per la composizione orchestrale, alla perenne ricerca dell’equilibrio fra scrittura sempre più evoluta e improvvisazione. È la corrente principale, il jazz per eccellenza ancora oggi, e sapete una cosa? È bello e vanta un foltissimo numero di praticanti, quasi sempre di altissimo livello. E di debutti eccellenti abbiamo perso il conto. Dopo questa introduzione a base di polemica gratuita, aggiungiamo al novero delle brillanti promesse Chris Massey, giovane batterista che risponde con simpatia e dovizia di particolari alle nostre domande. Tutti i particolari e i retroscena dell’ottimo ‘Vibrainium’, sulla vita del musicista e sul business visto da dentro vi aspet… anzi, no, leggete.

Puoi fare una piccola presentazione?
Sono cresciuto in una piccola città del Midwest degli Stati Uniti, Uniontown, in Ohio. Mio padre, oggi in pensione, era una scienziato e mia madre, oggi in pensione, un’infermiera. Per molto tempo pensavo di seguire le orme di mio padre, suppongo per la classica sindrome che si ha da bambini quando papà è il tuo Superman. All’arrivo della ribellione da teenager volevo invece fare il pilota, un interesse che ho perseguito fino alle superiori. Quando mi sono unito al complesso di jazz della mia scuola ho scoperto un’autentica passione per la musica; ho abbandonato il sogno di diventare un pilota e mi sono iscritto ad una scuola di musica. Come ogni istituzione accademica, aveva i suoi pro e i suoi contro: di sicuro mi ha aperto la mente a concetti, esperienze e idee del tutto nuove. Però ho imparato davvero a suonare affiancando le leggende del jazz che suonano da decenni. Frequentare dalle tre alle cinque jam session notturne ogni settimana, anziché fare i compiti assegnati, faceva imbestialire i miei insegnanti ma aumentava più che mai il mio amore per la musica. Ho avuto il piacere di suonare con Dave Holland, Joe Lovano, Donald Harrison e altri ancora che hanno influenzato molto la mia decisione di proseguire.

E cosa ci dici del Nue Jazz Project?
Beh, il Nue Jazz Project è nato come collettivo, sulla scia dei Jazz Messengers. Volevo che la formazione potesse cambiare senza compromettere l’identità sonora del gruppo. Anche se per ragioni logistiche sono io il leader nominale, il gruppo è un vero e proprio collettivo in cui tutti hanno la stessa importanza. Non ci sono sideman, qui. Una sera potrei fare io da portavoce, quella dopo il trombettista o il pianista. Ho avuto parecchi musicisti nella band, da Linda Oh a Wayne Escoffery a Wilherm Densfort. La band attuale, che comparirà nel prossimo disco, presenta alcuni giovani talenti come Adam Larson (sax tenore), Benny Bennack III (tromba), Chris Talio (contrabbasso) e  Wilherm Densfort (piano). E’ un gruppo pieno di energia e sono ansioso di farlo conoscere.

‘Vibrainium’ è il tuo debutto da leader dopo ben dieci anni di attività da sideman. Come mai hai aspettato tanto?
Le band guidate dai batteristi sono una rarità. Quelle guidate da batteristi che sono pure i principali compositori lo sono ancora di più. Jeff “Tain” Watts, al tempo del suo debutto da leader, disse una cosa molto intelligente, cioè che le sue composizioni riflettevano gli anni passati come ascoltatore di “buona musica”. In tutta onestà io non sono un compositore nato e mi ci vuole un po’ prima di poter scrivere su carta quello che sento nella mia testa. Dopo aver suonato per tanti anni con tanti grandi artisti, ad un certo punto ho finalmente capito che le mie orecchie e il mio cervello erano finalmente in sincrono e quindi capaci di scrivere brani che catturassero l’essenza del gruppo.

Il titolo, ‘Vibrainium’, è un omaggio alla Marvel Comics (il Vibranio è la lega metallica con cui è fatto lo scudo di Capitan America) e al cervello (“brain”)?
In realtà volevo chiamarlo ‘Vibranium’, come il metallo, ma con la recente acquisizione della Marvel da parte della Disney ho preferito evitare di essere denunciato da un colosso industriale prima compiere i trent’anni, così ho fatto quel piccolo gioco di parole. Mi viene sempre da ridere quando leggo recensioni in cui si parla di titolo “artistico” o “penetrante”: è solo un mio escamotage per evitare guai legali!

Ho descritto la tua musica come un aggressivo post-bop radicato nei Jazz Messengers. Sei d’accordo?
Sì, anche se poi in realtà sono sempre descrizioni che lasciano il tempo che trovano. In genere descrivo sempre il NJP come il figlio dei Jazz Messengers e del quartetto di Branford Marsalis periodo Tain/Kirkland. Voglio musica molto intensa, con un forte swing e melodie che la gente può fischiettare mentre torna a casa dal concerto. Voglio suonare diverso da chi mi ha preceduto e da chi mi seguirà. Voglio che fra dieci anni, ascoltando in una stazione radio jazz un pezzo su cui suono io, un ascoltatore possa dire “Ehi, è Chris Massey”.

Chi sono le tue principali influenze, come batterista e come compositore?
Il primo batterista che mi ha abbia fatto esclamare “wow!” è stato Buddy Rich, ai tempi delle superiori. Per me, come per tutti i giovani batteristi jazz, vederlo suonare era uno spettacolo nello spettacolo. Man mano che i miei gusti sono maturati mi sono avvicinato sempre più ad Art Blakey. Art suonava sempre come sé stesso, non come Art che imita X. Si tratta di una caratteristica che secondo me il mondo del jazz odierno trascura un po’ troppo. Si pensa che io, come batterista, possa e debba adattarmi a qualunque stile… ma perché? La filosofia di Art era di mettere tutto il suo sound a disposizione del gruppo o del solista, che da lì partiva per costruire la sua musica. Per me è questo il ruolo di un batterista. Noi siamo la tavolozza, il cavalletto e la legnaia.

Il grande punto di forza della tua musica è l’equilibrio: trascinante e ricca di swing ma pure cerebrale, con melodie orecchiabili, arrangiamenti ben curati e assolo eccellenti. Si guarda avanti senza perdere di vista il passato. Quando ci hai messo prima di mettere a punto una tua visione musicale?
Ritornando al discorso di prima, il musicista di oggi che cerca di fare troppe cose, il mio pensiero è sempre stato quello di fare una sola cosa estremamente bene. NJP significa musica dal fortissimo swing; il resto viene di conseguenza. Lo swing di per sè è cerebrale perché risuona direttamente nella coscienza umana. Non mi interessano molto le melodie aliene che non significano niente. Ci ricordiamo tutti le ninnenanne della mamma, perché erano motivi semplici e ripetitivi. Canzoni come “Fra Martino” possono diventare incredibilmente complesse col giusto arrangiamento, ma manterranno sempre la capacità di risuonare nella mente umana. Così, in un certo modo, la mia idea di musica è stata formata da mia madre e “Fra Martino”.

Come hai scelto i tuoi bravissimi compagni d’avventura?
Tramite Craiglist (popolare sito di annunci, nda). Quando mi sono trasferito a New York avevo pochissimi contatti e così organizzavo jam session con chiunque avesse voglia di partecipare. L’intesa è scattata subito, così nel giro di un anno abbiamo iniziato a suonare regolarmente nei locali newyorkesi. Da lì abbiamo deciso di mettere insieme una scaletta molto forte, che poi è diventata l’album stesso. Negli anni poi ho allargato molto la mia rete di contatti, e l’ultima band ne è il risultato diretto.

Ti sei autoprodotto, come moltissimi altri colleghi. Credi che sia questa la via del futuro, per il musicista jazz?
Assolutamente sì. I giorni delle royalty che pagano le bollette sono finiti. Con questi media globali capaci di connettere tutti con estrema facilità, i lavori autoprodotti diventaranno lo standard della nuova industria musicale. Faranno eccezione solo le superstar della musica pop.

E’ difficile oggi vivere di jazz per il musicista che di cognome non faccia Rollins, Marsalis, Shorter, Corea etc?
Una grossa sfida. Persa, perché non ce l’ho fatta e mi mantengo con un lavoro regolare. Credo che in parte dipenda da New York, dove il costo della vita è assurdo, e in parte pure dalla batteria, che solo per il trasporto richiede tutta una serie di costi addizionali. La scena dei club paga quanto pagava quando ero piccolo, di conseguenza diventa sempre più difficile per un musicista arrivare a fine mese suonando e basta – onestamente, non conosco nessuno che ce la faccia, tutti integrano le loro entrate con l’insegnamento. La soluzione che preferisco io è quella di un lavoro regolare con un orario abbastanza flessibile da non entrare in conflitto con tour e concerti. Credo sia la cosa migliore per essere in pari con le tasse nel 2012. Mi piace la sensazione di poter provvedere ai miei progetti; non ho debiti, suono la musica che mi piace e posso rifiutare quella che non mi piace.

Sei soddisfatto delle vendite e della ricezione del NJP, a oltre un anno dalla pubblicazione?
E’ una domanda un po’ complicata. Sono contento di essere arrivato a questo punto, con la musica. Se solo cinque anni fa mi avessi chiesto se, a mio vedere, sarei mai finito su Downbeat e All About Jazz, avrei risposto “sì, magari fra vent’anni”. Da questo punto di vista, insomma, sono andato da zero a cento in poco tempo. Ora che sono “dentro all’industria”, però, mi sono reso conto di una cosa sconcertante, e cioè quanto poche siano là fuori le persone che ascoltano jazz. Basta fare un giro su Kickstarter: vedi una ragazza che riesce a ottenere duecentomila dollari per avviare una produzione di guanti di lana, e cinque minuti dopo un musicista jazz di livello mondiale non riesce a tirarne su tremila. La dura realtà del business musicale la percepisci davvero quando affronti il processo di produzione di un disco: ti spinge a vedere quelli che prima erano semplicemente fan come potenziali clienti. Certamente i fan sono quelli che rendono la musica degna di essere suonata; non solo per il loro contributo economico, ma anche per tutta la passione che ci mettono. Così alla fine sono grato di avere questa opportunità, di poter far sentire la mia musica a tutte le persone che la amano.

Hai già scritto qualcosa per il prossimo disco?
Sì, eccome. Tra non molto inizieremo le prove e a maggio andremo a registrare. Sto collaborando col sassofonista Marcus Strickland e sarà grande far parte della sua etichetta indipendente.

Titoli come ‘Vibrainium’ e ‘Galactus’ (brano di apertura del disco ma anche divinità distruttrice del Marvel Universe), e pure parecchi post su Facebook testimoniano la tua passione per i fumetti. Hai mai pensato di scriverci un album concept?
Tutti i miei pezzi originali sono in qualche modo ispirati ai fumetti. Il fumetto è un po’ la mia passione. Nel mio mondo ideale Stan Lee, anziché denunciarmi, mi commissionerebbe le musiche per un film o per una trasmissione tv. Incrociamo le dita…

Il tuo personaggio preferito, e perché.
A parimerito, Pantera Nera (guardiano e protettore di tutto ciò che è Vibrainium) e Thor. Mio padre mi ha fatto conoscere i fumetti quando ero molto piccolo. Aveva una grande collezione di fumetti degli anni ’70 che leggevo e rileggevo in continuazione. Considero i fumetti di supereroi come Mitologia Americana.

Il jazz è…
La classificazione di qualcosa che è troppo grande per una semplice classificazione.

(Intervista a cura di Negrodeath)

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