FREE FALL JAZZ

Abbiamo parlato bene de ‘Il Partenzista’, album di debutto del batterista ligure Lorenzo Capello. Ci siamo anche riproposti di chiedere a Lorenzo qualcosa sullo stravagante titolo, e difatti la lunga intervista che segue parla dello strano neologismo, di tutto e di più, con tanta ironia e poca voglia di prendersi sul serio. Proprio per questo, forse, si va d’accordo. Ma anche perché Lorenzo è un bravo musicista che merita più di una chance!

Partiamo con l’abc, ovvero: le presentazioni!
Eccomi, ciao a tutti, son Lorenzo Capello, batterista e compositore di Riva Trigoso, un piccolo paese sul mare in provincia di Genova. Suono da una ventina d’anni, anche danni, e ho fatto parte di formazioni di stili e ispirazioni diversi, dal rock al jazz al folk balcanico a svariate altre cose. Da un po’ di anni avevo in mente di registrare un disco mio, dove avessi avuto la responsabilità abbastanza totale delle note e delle ignote che poi la gente avrebbe ascoltato. Nel 2005 conobbi Raffaele Abbate della OrangeHomeRecords il quale, spiego dopo con che modalità, mi propose di produrmi un album. Fu così che partì “Il Partenzista”, un disco in quintetto che ha oltre a me: Francesco Di Giulio al trombone, Antonio Gallucci ai sassofoni, Lorenzo Paesani al pianoforte e Fender Rhodes, Dino Cerruti a contrabbasso e basso elettrico. In più, solo sulla title track, Massimiliano Caretta è la voce recitante ed Enrico Di Bella la seconda batteria. L’etichetta è appunto la OrangeHomeRecords di Leivi (GE) e la distribuzione è in proprio. Se andate sulla pagina http://lorenzocapello.it/compra_il_disco.html c’è scritto come averlo, sia materialmente (lo spedisco io), sia da Itunes (lo spedisce la Mela).

La tua biografia dice che hai lavorato parecchio in svariati ambiti musicali (pop, rock, classico), oltre che jazz. Quanto ti hanno arricchito queste esperienze?
Sì, ho lavorato e studiato, nonchè ovviamente ascoltato, diversi generi e stili. Per esempio il pomeriggio del 25 aprile, prima di suonare ‘Bella Ciao’ con la banda della Filarmonica di Sestri Levante donde insegno batteria, ho ascoltato il concerto di un coro ed ensemble di flauti, corde e percussioni rinascimentali, ed è stato un gran bell’ascolto. Oppure tempo fa mi son trovato a provar con un gruppo ‘Let’s Twist Again’ di Chubby Checker, e l’ho prontamente inserita in uno dei miei pezzi-giocattolo che eseguiamo nei nostri live.
Più in generale, credo di prendere elementi da generi diversi perché alcune cose mi suonano bene in quel modo. In particolare certi aspetti del rock mi piacciono molto: energia, semplicità, ripetitività, fra le altre. Del funk il tiro ritmico, le semicrome semicromatiche, i riff di basso; del jazz soprattutto la leggerezza, la libertà nella scrittura e nell’improvvisazione, il sound acustico pieno di armonici, il senso del blues, la piacevole sensazione che si può improvvisare totalmente un concerto intero; della musica classica contemporanea la ricerca di suoni nuovi tramite materiali e procedimenti non ortodossi, l’ironia nel voler infrangere certe regole; della musica irlandese il senso di spazio e i ricordi dei pub di Dublino, e via dicendo. Quindi anche, perchè no, le memorie che ci balzano all’orecchio, quasi subcoscienti, nell’istante stesso in cui si ascolta una frase, una melodia. Da qui viene anche il gusto che provo per le citazioni surreali. Ma poi mi piace usare le parole, la voce o il fischiare, gli strumenti giocattolo, il minimalismo iterativo, i suoni strani, tutte cose che ho imparato ad ascoltare e a far mie, il più possibile, venendo a conoscenza di altri mondi musicali. In ultimo, vorrei sottolineare quanto sia importante trarre ispirazione anche da ambienti non strettamente musicali: mi ricordo ad esempio che quando vidi ‘Pulp Fiction’ anni fa, rimasi folgorato dal capire che la narrazione può anche non procedere in modo temporalmente rettilineo.

Chi sono i tuoi batteristi di riferimento?
Allora, direi intanto che i batteristi che conosco meglio e che preferisco sono per la maggior parte batteristi di jazz, anche se comunque mi piacciono, e ho studiato anche un po’ di gente al di fuori di questo genere.
Detto questo, i miei preferiti son sempre stati Paul Motian, Roy Haynes e Max Roach, fra loro piuttosto complementari se andiamo a vedere. Ma mi piaccion ovviamente tutti i batteristi importanti del jazz, specie Elvin Jones (ho riascoltato credo dieci volte ‘A Love Supreme’ la settimana scorsa, magnifico Elvin!), Tony Williams, De Johnnette, Billy Higgins, Daniel Humair, Ben Riley, questi fra gli “storici”. Fra i contemporanei Jeff Ballard, Ben Perowski, Eric Harland, Roberto Gatto, Fabrizio Sferra, Ettore Fioravanti, Bill Stewart, Ferenc Nemeth. Fra i batteristi “altri”, Manu Katchè, Stewart Copeland, John Bonham, Ian Paice senz’altro, ma apprezzo molto anche Larry Mullen per le sue semplicità efficacissime. Detesto invece Dave Weckl: credo abbia fatto molti più danni al batterismo rispetto ai benefici che ha portato, ma è una mia opinione ovviamente. Poi mi ricordo che mi colpì molto Rob Ellis sugli album di PJ Harvey. Infine vorrei citare Riccardo Zegna: un pianista ligure che non ha bisogno di presentazioni, che suona anche la batteria senza una grande tecnica ma con una grande attenzione armonica, essendo pianista. Lo ascoltai anni fa con le bacchette in mano, mi ha cambiato la vita.

Ho parlato della tua musica come di una specie di colonna sonora di un film immaginario, visto che sembra raccontare (e visualizzare) una storia, in qualche modo. L’hai scritta in questo modo intenzionalmente?
Diciamo che non tutti pezzi li ho scritti con questo intento, ma in qualche modo sicuramente c’è molto di cinematografico nel disco. L’ho voluto dire in effetti anche con la grafica del booklet, con le foto tipo panavision e in bianco e nero. E non è che io sia un fanatico del cinema, eh: per dire, i film che vado a vedere li sceglie (con molto gusto) la mia ragazza. Però mi rendo conto di scrivere molto con delle immagini in testa, mi rifaccio molto ad ambienti sonori, a musiche che hanno un’immagine ben precisa alla quale sono legate, quasi come un “luogo” comune, un po’ pop art anche se vogliamo. Ad esempio il blues minore di ‘Martin Mystère’, il primo pezzo, è chiaro che ha dei riferimenti noir-polizieschi, che ovviamente non sono degli anni ’70 (sarebbe stato probabilmente un funk con molti effetti di charleston aperto-chiuso) ma dei ’50. Per dirla tutta: era Ellery Queen che dava una mano a Martin Mystère, non Baretta. Oppure la tarantella del ‘Circo di Fine Anno’ richiama per forza un pagliaccio più che un trapezista. Sono poi portato a pensare che i momenti della vita che viviamo potrebbero virtualmente avere sempre una musica giusta che li accompagna, fosse anche solo il silenzio, o dei rumori, o un fischiettio. Allora ben venga il processo inverso: pensare a quale musica mi piacerebbe ascoltare in determinate situazioni, e cercare di “scriverla”, di rieseguirla.

Ne ‘Il circo di fine anno’ mi ha molto colpito l’uso del tema di ‘America’ di Leonard Bernstein, che arriva sempre a sorpresa e disfa tutto. Come ti è venuta questa idea?
Mah, all’inizio mi suonava bene semplicemente come chiusura del tema; poi mi piaceva perché  non c’entrava nulla con quello che succede prima (un concetto un po’ alla Monthy Python, questo); poi perché l’avevo studiata col mio primo insegnante di batteria per una scomposizione fra colpi singoli e doppi. Insomma, un’insieme di ottimi motivi. Poi ho pensato che c’è molta gente, fra noi jazzisti, che “vuol far l’americano”, e questo ha semplicemente chiuso il cerchio: e allora, mettiamoci anche una presa in giro dell’emulatore di musicisti americani! Pensa a quante cose si posson dire citando ‘America’ … spaventoso!
Comunque, detto fra noi, anche se la pensi esclusivamente come interludio fra un solo e l’altro, la citazione di ‘America’ funge benissimo.

La title track infine mi ha convinto poco, l’ho trovata noiosa e un filino pretenziosa. Ma questa è l’accusa. La difesa cosa dice?
Beh, l’Accusa è precisa e circostanziata, e la capisco pure: anche a me spesso non piacciono i momenti recitati su una base musicale. La Difesa dice che intanto è un pezzo mio, quindi vale sempre la regola partenopea-pinodanielesca dello scarrafone e di sua madre, eheheh. E poi dice che quel testo ha per me una precisa importanza, in senso autobiografico: racconta di un periodo della mia vita che ho passato a cercare di non voler essere quello che mi si chiedeva di essere. E poi di un successivo altro periodo in cui mi son reso conto che un minimo avrei dovuto invece essere come mi si chiedeva. E poi di un altro periodo, durato circa trenta secondi comunque, in cui ho deciso di intitolare quel pezzo ‘Il Partenzista’, proprio perché comunque da qualcosa si doveva partire per essere qualcosa di diverso. Da quel pezzo è poi nata la collaborazione con il mio produttore, Raffaele Abbate della OrangeHomeRecords, a cui piacque e che volle produrlo, e che poi mi disse che se mi andava mi avrebbe prodotto un disco intero. Questo accadde nel 2005 (e la versione che si sente nel disco ha già sette anni ormai, dice la difesa…), quindi quel pezzo sta lì anche a ricordarmi quanto son stato fortunato, ma anche di non doverci necessariamente mettere altri cinque anni per registrare il secondo disco. Insomma, la difesa accampa simili argomentazioni. A chi diamo ragione? Secondo me abbiamo ragione tutti e due. Dobbiamo solo informarci se il reato di noia nei recitativi è già caduto in prescrizione dal 2005 ad oggi.

Dopo la title track c’è un brano nascosto. E’ una pratica ormai comune nel mondo del rock, ma nel jazz non mi pare proprio. E’ per questo che ti è venuta l’idea?
Le ghost-track, come tutte le cose nascoste che uno deve andarsi un po’ a cercare, o deve trovare per caso, mi han sempre affascinato. Comunque ti debbo smentire, o meglio, segnalarti un’eccezione che conferma la regola: tempo fa ascoltando un disco dell’Esbijorn Svensson Trio, non ricordo il titolo, dopo l’ultimo pezzo è partita una ghost track, cantata, che si staccava dal resto del disco giusto per la presenza della voce. E allora, sì lo ammetto, gli ho rubato l’idea (e non è la sola idea che ho rubato qui e là, ovviamente!). Ma la cosa che mi piace della mia ghost-track è che è completamente diversa dal resto dell’album, e poi sfocia in un vero e proprio urlo, fra il solo lancinante del sax e la grattugia della chitarra distorta… Senza andare a parlare del testo nello specifico, diciamo che è una specie di “seconda puntata” della saga del Partenzista, quindi anche questa è autobiograficamente importante. Il risultato sonoro mi piace molto, e la ascolto sempre con molta soddisfazione!

‘Il Partenzista’ è il tuo esordio come leader. Da quanto tempo meditavi di lanciarti in proprio?
Credo da quando ho iniziato a suonare… forse anche da prima ahahah! Il fatto è che quando si fa il batterista ci si deve per forza mettere nel ruolo, peraltro naturale beninteso, di gregario, e raramente si riescono a proporre i pezzi che si voglion suonare. A me nello specifico è capitato spesso di dover suonare che so, roba velocissima troppo fine a se stessa, oppure di accompagnare assoli lunghissimi spesso senza idee dietro, o suonare pezzi che non mi dicono niente, magari arrangiati-orchestrati in un modo a metà fra il banale e l’imbarazzante. Come piccola cattiveria, devo dire che dopo alcune serate mi veniva proprio la presunzione di pensare che qualsiasi cosa avrebbe potuto funzionare meglio di ciò che avevo appena suonato! Ad un certo punto ho voluto un po’ vedere se le idee che mi eran nate e cresciute dentro in anni di gregaritudine-gregariato-gregarietà potevan funzionare. Così mi sono avventurato nel ‘Partenzista’. Ce ne ho messo del tempo, prima dovevo risolvere un po’ dei problemi di composizione e arrangiamento che avevo (e c’è ancora molto da fare…). In questo ringrazio, e non poco, Bruno Tommaso, che a Siena Jazz mi ha fatto venir una gran voglia di scrivere, con quel suo “entusiasmo lento” che adoro. Poi ho aspettato che mi capitasse sottomano la gente giusta che volesse condividere con me il progetto, e anche qui Siena Jazz è stata fondamentale, perché tre quinti del gruppo li ho conosciuti lì… insomma, c’è voluto del tempo, ma mi è andata bene.

Ci spieghi bene il concetto di Partenzista? E cos’è un Partenzista della musica?
Il concetto del Partenzista è semplicemente il contrario dell’arrivista: questi vuole arrivare ad ogni costo, mentre il partenzista vuol partire, ad ogni costo. Quindi un proto-tutto, uno sperimentatore del quotidiano, attratto da ogni cosa, ma anche e soprattutto incerto sugli inizi, su come comportarsi, come continuare, cosa dire o non dire. Insomma, un potenziale sfigatissimo, ma in genere animato da un motore di pochi ma inarrestabili giri. Nella musica è un partenzista come nel resto, ma bisogna tener conto del fatto che la musica è la sua salvezza, probabilmente, quindi ogni mossa potrebbe essere fatale, in un senso o nell’altro. Ma poi, forse un giorno si accorge che qualsiasi mossa potrebbe esser abbastanza vincente, se seguita da un po’ di fiducia nella mossa stessa. A quel punto, il partenzista cessa di esser tale, ma questo è semplicemente uno dei tanti paradossi con cui ci si scontra nell’imperfezione delle definizioni umane. E poi non potevo intitolare il disco ‘L’ex Partenzista’, avrei dovuto spiegare il doppio delle cose…

Domanda scomoda ma sempre interessante: cosa deve fare un musicista italiano (jazz, ma non solo) per campare di musica?
Dovresti trovare qualcuno che vive di musica per aver una buona risposta… io sopravvivo di musica, quindi non sono la persona più adatta! Avevo iniziato a scrivere un decalogo fitto di consigli, questo e quest’altro, ma mettiamola così: l’unica cosa imprescindibile è, banalmente, fantasticamente, e drammaticamente, crederci. Nel senso, capire che sì: si può fare. Conosco un bel po’ di gente, anche molto talentuosa, molto più di me, che ha smesso semplicemente, e tristemente, perchè si è convinta in qualche modo che non era possibile. Tutto questo può rientare in un umano discorso di selezione naturale, magari non c’è posto per tutti, magari si fa finta di dar ragione a chi ci chiede di trovarci un lavoro normale. Però dobbiamo farci un esame di (in)coscienza, e capire che ok, c’è da studiare, da farsi conoscere, da suonare il più possibile, da macinare km, e molto altro, ma sì, si può fare.

Ancora peggio: il jazz in Italia non ha assorbito quelle caratteristiche tipiche dell’italianità, su tutte il giro dei soliti che fanno tutto e lasciano le briciole agli altri?
Sì, sono d’accordo, ed è un po’ fastidioso perché, oltre a non riuscire a trovare troppi spazi, si rischia una sorta di emofilia del jazz: le idee che girano rischiano di esser sempre quelle, condivise solo fra le stesse persone di sempre, con il pubblico che fra un po’ non ne potrà più. E qui ci rimetteranno anche i musicisti che suonano molto. Credo che il jazz sia un genere che si è sempre nutrito di diversità, di idee nuove, di scambi fra persone ed esperienze disparate: quando questi meccanismi vengono meno, si rischia un impoverimento delle idee, degli intenti, un appiattirsi sui gusti del pubblico più facile, sui desideri di facile mercato. Come un cane che si morde la coda, piano piano ci si impoverisce, girano meno soldi, ci si sposta meno, si prova di meno perchè magari non si può stare un giorno in più fuori, non nascono pezzi nuovi, insomma un meccanismo destinato a bloccarsi o quantomeno a non funzionare più bene. Una soluzione secondo me potrebbe essere un maggiore investimento personale, sia a livello di tempo che di denaro: in tempi di crisi la spinta propulsiva alle idee deve uscire fuori dalla volontà. In più apprezzo molto i vari collettivi di improvvisazione che stan nascendo in giro per l’Italia, i vari Franco Ferguson, Improvvisatore Involontario, El Gallo Rojo e altri: credo sia un buon modo per confrontarsi e per far nascere situazioni che vengono “dal basso”, dai musicisti che si sbattono, si autotassano e producono musica fatta di passione. E credo che in questo momento, nonostante la crisi, o forse proprio grazie alla crisi, il pubblico abbia voglia di assistere a qualcosa di più vero. Davvero, mi pare di notare che si stia pian piano smascherando la povertà di idee, e d’animo spesso, che si nasconde dietro ai vari karaoke, alle orchestre di liscioplayback, ai pianobaristi. E cosa c’è di più vero del jazz (di quello buono almeno…) con la sua capacità di esser diverso ogni sera?

Hai già idee per il prossimo disco ed eventuali date dal vivo?
Per il prossimo, eventuale (non si sa mai … ), disco ho scritto già un pezzo e mezzo, sono quindi a buon punto, in quanto già oltre una mera Partenza! Scherzi a parte, sì via via che ho delle idee le metto da parte e le scrivo, alcune (un pezzo nuovo e un mio arrangiamento di ‘Perfect Day’ di Lou Reed) già le stiamo proponendo dal vivo e non mi dispiace affatto il risultato. Per quanto riguarda le date, stiamo cercando di organizzare un po’ di cose per l’estate che arriva, e qualcosa dovremmo riucire a fare, a breve le prime conferme. E’ difficile riuscire a girare in quintetto, ma il gruppo è affiatato e ce la possiamo fare.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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