Sassofonista iper-post-modale dalla notevole cattiveria, direttore di grandi orchestre con cori annessi, compositore, direttore artistico (ricordiamo tra gli altri i festival Jazz E Altro, Oltre Il Jazz e Paola In Jazz), ex sindacalista tuttora incazzato, coordinatore del Dipartimento di Jazz del Conservatorio di Cosenza, padre affettuoso e marito fedele. Nicola Pisani è certamente un personaggio da intervistare: ecco cosa ne è uscito fuori.
Ho ascoltato con curiosità il disco ‘Sequenze Armoniche – Some Gregorian Reflections’ della Dolmen Orchestra (da te diretta): vuoi parlarci un po’ della sua genesi?
Nasce per caso, come molte cose che rimangono poi nella tua vita. Mi piace comporre per organici grandi, pescare in tutto ciò che mi incuriosisce, interagire con gli altri e soprattutto condividerne i processi creativi. La Dolmen era un laboratorio di improvvisazione e composizione, e tutto nasce dalla curiosità di unire questo con le grandi cattedrali romaniche che abbiamo in Puglia. Mettici il mio passato da corista, la necessità di avere un forte stimolo creativo da qualcosa che avesse a che fare con il mio territorio e la mia storia musicale, risultato in un leit motif o cantus firmus, che dir si voglia: il gregoriano ‘Victimae Paschali Laudes’, bistrattato da un gruppo di jazzaroli ed eseguito in bellissime cattedrali, quelle di Barletta, Bari e Molfetta, il tutto impreziosito da Michel Godard, John Surman e Linda Bsirì.
Come nasce il tuo interesse per i grandi ensemble? Ti senti più direttore o sassofonista? Insomma, ti diverte di più dirigere o suonare?
Comporre mi diverte: mi piace guardare la disposizione dei vari segni su tanti fili paralleli, e se sono tanti, vuol dire che tanti servono per eseguirli, per questo mi piacciono i grandi ensemble, una tavolozza di suoni infinita. Mi piace anche suonare immerso in una densità timbrica. Se comporre mi diverte, dovrei dire che dirigere mi fa ridere: inventarsi le situazioni, improvvisare in collettivo anche con gesti e sguardi, far funzionare assieme i segni prima citati con le diverse personalità di chi collabora con me mi fa sorridere di contentezza. Suonare il sassofono è un necessario e imprescindibile momento solipsistico individuale e collettivo. Purtroppo sono tanto spigoloso sul sax quanto invece smussato sulla composizione. Con il sax faccio “rumore” prima di ascoltarmi, con la composizione prevedo la tendenza al “rumore” e quindi la controllo, con la direzione la ricreo pure se non prevista: insomma, una tragedia!
Gran parte del tuo tempo è dedicato alla didattica: qual è il tuo punto di vista? Come insegni? Come vivi la didattica jazz all’interno dei Conservatori? Che prospettive vedi?
Non è del tutto vero quello che dici: la maggior parte del mio tempo lo dedico al pensiero, che si esterna nella mia musica e nella didattica, che effettivamente è una parte importante della mia vita. Mi rende felice vedere che le mie farneticazioni ne possano produrre altre con paternità, o maternità, diverse. Nella mia attività di didatta cerco prima di imparare dai miei studenti e poi trovare i loro punti deboli per rafforzarli, puntando soprattutto sulla consapevolezza delle loro capacità creative. Ciò mi porta a comunicare sempre in maniera diversa gli argomenti che trattiamo, adattati alle esigenze di chi ho di fronte: è come applicare tecniche d’improvvisazione alla pedagogia. Inoltre, se impacchettassimo il jazz in un accademismo di tipo tradizionale, diventerebbe la povera copia di mille anni di storia della musica “colta”. Questo è il grande rischio della didattica jazz nei conservatori: cercare di applicare forme pedagogiche e organizzative accademiche ad una prassi che deve essere totalmente libera di farsi influenzare da tutto e non solo dalla propria storia. Attualmente il jazz più diffuso e soprattutto maggiormente conosciuto e rappresentato ha questo difetto, si alimenta solo di se stesso, e spesso è segaiolo e noioso, un (in)utile soprammobile. Sarà l’età, ma il jazz è per me solo una parte, pur importante, della mia vita di pubblico, musicista e compositore.
Ed ora il futuro: cosa farai da grande?
Considerando quello che ho detto prima, più passano gli anni e più scopro di non aver sentito e apprezzato ancora tanta musica, quindi credo che a novant’anni finalmente metterò su un progetto di heavy metal. E forse a 130 una cover band dei Beatles (risate, nda.). Per ora sto cercando ancora di scoprire, se ci fosse, la mia musica.
(Intervista a cura di Carlo Cimino)