FREE FALL JAZZ

Probabilmente avrete letto suoi articoli sulle riviste jazz di tiratura nazionale, altrettanto probabilmente avrete assistito a concerti organizzati da lui. Forse siete stati suoi allievi. Critico musicale, direttore artistico, (ex) professore di musica, Gianni Morelenbaum Gualberto è una figura coraggiosa nel panorama musicale, e più in generale culturale, italiano. Tuttavia ha accettato di buon grado l’interrogatorio di Free Fall Jazz, spaziando in lungo e in largo, oltre i confini del jazz fino a lambire… beh, se lo scrivo qui poi non leggete niente. Quindi, preparatevi: 1,2,3, after the jump!

Una breve presentazione, tanto per cominciare.
Dirigo da diciassette anni “Aperitivo in Concerto“, ho insegnato (con molti dubbi) Storia della Musica all’Università Bocconi (un’istituzione sulla quale nutro alcune perplessità…), lavoro eminentemente, ai giorni d’oggi, in Brasile, come consulente artistico per una serie di manifestazioni culturali promosse dal governo brasiliano.

Direttore artistico, professore di storia della musica, critico musicale. Come è nata la tua passione per la musica?
Ho fatto i miei studi in ambito accademico, prima in Brasile, dove sono nato a Recife il 30 marzo 1955, poi in Olanda. In casa, però, si ascoltava di tutto. Mio padre era un appassionato di jazz, mia madre amava la musica accademica ma anche il jazz, si fermava però a Fats Waller, tutto quello che veniva dopo era per lei “jazz freddo”. Ambedue, comunque, avevano delle basi culturali solide e per cui sapevano -come dire?- rispondere adeguatamente ai miei interrogativi. Insomma, se chiedevo chi fosse Gerry Mulligan, non ottenevo sguardi persi nel vuoto. Soprattutto, ho potuto beneficiare di una vasta collezione di dischi, fra 78 giri e LP, e di un’ancora più ampia biblioteca, impostata non solo sui classici francesi, tedeschi, inglesi e russi, ma non poco sulla letteratura americana, di cui mia madre è stata un’appassionata (peraltro, lavorava come traduttrice in portoghese dal tedesco e dall’italiano). Il primo innamoramento musicale autentico mi capitò proprio grazie a un’”imbeccata” di mia madre che, avendo notato un mio informe interesse per la musica, mi consigliò di ascoltare un canale radiofonico brasiliano in cui si trasmettevano molti programmi di musica accademica. Ancora oggi mi ricordo benissimo quel giorno: ascoltai le “Variazioni su un tema di Haydn” di Brahms, dirette da Wilhelm Furtwaengler, e fu un innamoramento al primo ascolto. Ancora oggi, la mia più profonda passione musicale rimane l’opera di Brahms. Nel corso della mia vita ho poi approfondito sia lo studio della musica accademica e, in parallelo, quello del jazz. Curiosamente, sono arrivato più tardi ad altro: da ragazzo, comunque, mi appassionò non poco il cosiddetto “acid rock” americano. Comunque, credo che oggi sia indispensabile ascoltare non dico tutto, ma quasi. O, se vogliamo, di tutto. Che si tratti di Alva Noto, William Duckworth, Jerry Garcia o Mahler e Rihm. Non tanto per eclettismo generico ma perché nel Novecento, più ancora che sincretismi e contaminazioni, si sono affermate plurime sovrapposizioni di conoscenze e linguaggi che hanno contribuito, per così dire, alla formazione di un “orecchio globale”. Un compositore nostro contemporaneo che non abbia ascoltato altro che musica accademica e che altro non abbia sviscerato che testi affini è un qualcuno che vive fuori dal mondo. Insomma, studiare Mahler senza conoscere la cultura ebraica e yiddish o senza sapere cos’era il Gruppo Pernerstorfer o senza frequentare il klezmer o senza avere assimilato la tradizione culturale mitteleuropea, ha poco senso. Allo stesso modo, che significato può avere ascoltare “Black Dahlia” di Bob Belden senza avere alcuna nozione della cosiddetta “pulp fiction” (che giunse ad influenzare Hemingway e le sue “Nick Adams Stories”) e senza conoscere Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Ross McDonald, Cornell Woolrich fino a James Ellroy? E’ come ascoltare i lieder di Schubert o Schumann senza conoscerne i testi e i loro relativi autori.

Nei tuoi scritti ho sempre apprezzato il guardare avanti, che è l’esatto opposto della posizione tipica italiana secondo cui la cultura finisce il 31/12/1899 ed è comunque affare tutto italo/europeo, e al resto si concede giusto un po’ di paternalismo ipocrita. Quanto dipende dalla tua inclinazione personale e quanto dall’essere nato e cresciuto in Brasile, secondo te?
La mia è stata una famiglia dalle molte “ramificazioni”: francesi, afro-brasiliane, polacche, ebree, argentine. Era naturale prendere da ciascuna di esse. Mia nonna era nata a Buenos Aires nel 1899, amava il tango, aveva conosciuto e ascoltato Carlos Gardel. Le origini della mia famiglia materna erano ebraico-polacche, da Cracovia: il klezmer, la religiosità, la spiritualità, il culto del dubbio, l’abitudine alla lettura e alla discussione non potevano mancare. Mio padre era afro-brasiliano di origine italo-francese per parte di madre: da buon brasiliano, sapeva trarre da una scatoletta di fiammiferi ritmi impensabili (almeno per me). In casa si ascoltava anche la musica brasiliana, da Villa-Lobos a Noel Rosa e Ary Barroso, nella mia gioventù sono passato dalla bossa nova al tropicalismo. Insomma, non eravamo usi ad alcuna ortodossia (se non, nel caso dei miei nonni materni, aquella ebraica), il concetto di “purezza” culturale ci era ignoto e, nonostante una serie di ascendenti mitteleuropei, non eravamo particolarmente attaccati all’Europa e, di conseguenza, all’eurocentrismo. Per parte della mia famiglia l’Europa significava “cultura degenerata”, il nazismo, la Shoa: il mondo americano, pur con tutte le sue dinamiche contrastanti, le sue contraddizioni anche violente e perverse, ci aveva comunque insegnato la libertà da Tocqueville in poi, il laboratorio multietnico (che in Brasile era ancora più accentuato, senza conoscere i drammi della segregazione, pur non essendo certo l’Eden), la creatività che poteva venire, prorompere, eruttare anche e soprattutto dal basso, dai diseredati e non necessariamente solo dalle auliche imposizioni dell’élite. Credo che dell’Europa mia madre conservasse un buon ricordo solo di Winston Churchill… Oltretutto, l’ebraismo era ed è anche il credo fondante di una cultura che attraverso la sofferenza diasporica ha dovuto misurarsi con l’Altro in tutto l’ecumene per millenni. In Brasile, inoltre, la distinzione fra cultura “alta” e “bassa” è sempre stata labile, se non inesistente, soprattutto (ma non solo) in campo musicale La cultura brasiliana s’è definita, sin dagli anni Venti, con Oswald de Andrade, “antropofaga”, presa dal fagocitare l’Altro, con tutte le sue diverse caratteristiche. Come scriveva un intellettuale come Màrio Pedrosa, se è inevitabile l’assimilazione delle conquiste della civiltà moderna, è necessario che il brasiliano elevi la propria cultura, “purché mantenga le qualità barbare delle origini meticce e africane”. Immagino che tutto questo mi abbia condizionato, avendo trascorso tutti gli anni della mia formazione in Brasile. Peraltro, mio padre, lavorando per la Shell, era obbligato a trasferirsi da un posto all’altro del mondo (con noi al seguito), frequentando certamente molto più l’Africa, il Medio Oriente e le Americhe dell’Europa. Nella cultura brasiliana, d’altronde, vi è sempre stata, soprattutto nel Novecento, una certa resistenza all’Europa e alla cultura europea, sebbene molti modelli letterari brasiliani fossero europei, soprattutto francesi, laddove la musica accademica aveva a lungo subito, invece, influenze francesi, tedesche e italiane: ma il Brasile era anche discendente di quel Portogallo che, con il Marchese di Pombal, aveva scacciato l’Inquisizione e i gesuiti, proponendo un Illuminismo diverso dalla più cupa influenza spagnola diffusasi nell’America Latina. Il Brasile è terra di immensi sincretismi, in cui l’influenza africana è non solo evidente e preponderante ma anche molto amata, che si tratti di folklore, costumi o gastronomia. Non sono cresciuto, insomma, nell’eurocentrismo. Per quello che mi riguarda, con l’Olocausto l’Europa ha commesso il peggior crimine verso se stessa, non solo verso l’umanità, uccidendo, annientando, cancellando una cultura che aveva contribuito a definire l’Europa nel suo meglio, che aveva contribuito in modo imprescindibile alla sua civiltà, che le aveva dato un cosmopolitismo mai più ricuperato. Riconosco che trattasi di una posizione radicale e forse anche non scevra da pregiudizi, ma per me l’Europa è morta nel 1945 e D-o solo sa quando potrà ricuperare una sua centralità. Il Novecento è definitivamente il secolo del Nuovo Mondo, il XXI secolo sarà probabilmente il secolo dei Nuovi Mondi, di tutte quelle culture che, peraltro, per secoli sono state sfruttate e calpestate dall’Europa, dal suo imperialismo, dal suo colonialismo. Credo perciò importante studiare questi sommovimenti, sono e saranno l’ossatura della nostra contemporaneità e di coloro che verranno dopo di noi.

Da quasi vent’anni dirigi “Aperitivo In Concerto” a Milano. Come sintetizzeresti questa esperienza?
Mi è difficile rispondere. Lavorare in un’azienda privata, specie in campo culturale, non è semplice. Si tratta di entità che non sono nate per finanziare e stimolare la ricerca culturale, non è quello il loro bisogno primario, è bene farsene una ragione ed evitare di scandalizzarsi un po’ farisaicamente. La tradizione italiana è una tradizione, in campo culturale, neghittosamente pubblica, sempre in bilico fra l’occasionale mecenatismo di singoli e la infastidita e pigra elargizione a scopo di (ri)costruzione di una verginità. Tant’è che sono ben poche, al di là di Mediaset con “Aperitivo in Concerto”, le aziende private italiane che investono sulla cultura. Insomma, poiché non abbiamo impianti legislativi adeguati, in grado di stimolare l’interesse a finanziare la cultura, e difettando di una tradizione storica in questo campo (è scomparsa anche la tradizionale borghesia industriale settentrionale con aspirazioni illuminate), bisogna fare di necessità virtù. Certamente, non ho mai potuto realizzare, se non in minima parte, un “mio” progetto, basato sull’evoluzione di nuovi linguaggi complessi in grado di fare da contraltare e da soggetto dialogante con la tradizione etnica europea, cioè quella accademica. “Aperitivo in Concerto”, peraltro, mi ricorda “Dieci Piccoli Indiani” della Christie: a poco a poco siamo rimasti quasi soli in una città che è andata spegnendosi, che è andata perdendo la propria identità senza peraltro sostituirla con un maggiore dialogo con le crescenti minoranze. Persino i centri sociali, un tempo fondamentali per Milano, si sono tristemente imborghesiti. Il denaro pubblico serve a finanziare essenzialmente dei baluardi storici della conservazione, magari di alto liveallo produttivo ma integralmente alieni alla contemporaneità (ivi compresa buona parte del Novecento), o mega-festival che oscillano fra banalità salottiere, che dovrebbere produrre un frisson d’eccitazione lungo la schiena di una élite borghese incolta e presa dall’uso della cultura istituzionale come mezzo per acquisire status symbol, e la sagra banale e stucchevole del dejà écouté. Lo stesso, d’altronde, si può dire per Torino o per Firenze, laddove Roma vive da tempo una politica della “grande bouffe”, dell’abbuffata alquanto indiscriminata, superficiale e volgarotta, per quanto esibita con una certa larghezza di mezzi da Tardo Impero. Un atteggiamento un po’ guascone, un po’ gradasso, da parvenu, per quanto, in tale immenso supermercato, non manchino anche cose di innegabile pregio, che purtroppo danno l’impressione di essere l’eccezione più che la regola. Un atteggiamento forzosamente comprensibile in ambito privato, assai meno in quello pubblico, lasciando perdere l’influenza negativa che certi atteggiamenti possono esercitare nell’ambito di un mercato ritretto. “Aperitivo in Concerto” è, oggi, purtroppo, un’isola incompleta.

Cosa deve avere un musicista per interessarti e essere inserito in cartellone?
Un concerto è il frutto di una serie di scelte. Non penso che si debba sempre proporre il proprio sogno nel cassetto, talvolta si tratta anche della presa d’atto di fenomeni o linguaggi che possono anche non entusiasmare o attrarre un direttore artistico. Ma, una volta assodato il loro valore, è sempre necessario dare testimonianza della e delle realtà. Io, ad esempio, non amo Tim Berne, ma sarei certamente felice di inserirne un concerto in cartellone: si tratta di un musicista dalle indiscutibili qualità, per quanto esse possano non attrarmi. Perché mai dovrei privarne il pubblico? In genere, comunque, ho cercato di testimoniare alcune esperienze diasporiche, tentando soprattutto di illustrare quanto di creativo accade lontano da noi e dalle nostre piccole bagarre un po’ provinciali, lontano dai nostri angusti confini. Francamente, a me non interessa da dove viene un artista (rock, pop, jazz, accademia e altro) ma dove va. Non sempre l’operazione riesce. D’altronde, come dicevo, “Aperitivo in Concerto”, al di là delle mie debolezze, dei miei difetti e delle mie capacità o incapacità, è un progetto rimasto incompleto: per questioni di budget, soprattutto, ma non solo. Per quanto io non disdegni i progetti “a tema”, bisogna pur considerare il contesto in cui si opera, il fatto di lavorare in un teatro (e, comunque, il Teatro Manzoni rimane una delle sale-simbolo, storiche, di Milano) e non in una struttura votata alla sperimentazione, il fatto di lavorare in una città in cui sempre più rarefatta si è andata facendo la scena musicale, e via discorrendo. Si fanno anche dei compromessi, è ovvio, per quanto nell’ambito del lecito. Diciamo che abbiamo cercato sempre di difendere il livello qualitativo di ogni proposta. Non sempre è possibile puntare esclusivamente sull’originalità. Io, ad esempio, ho sempre avuto perplessità sul progetto di Dave Holland con Pepe Habichuela, ma in una programmazione in cui s’è sempre dato spazio al dialogo fra linguaggi diversi esso meritava comunque un suo spazio, se non altro per l’indiscutibile valore degli autori.

Le tue proposte possono essere accusate di tutto, tranne che di inseguire la moda. Qualità e coerenza, alla lunga, pagano?
Ne sono fermamente convinto. Soprattutto, sono fermamente convinto che paghi l’onestà intellettuale nei confronti del pubblico. Inseguire la moda, purtroppo, prima o poi porta proprio alla perdita dell’onestà intellettuale. Meglio avere meno spettatori, piuttosto che cedere alle facili consuetudini o al compromesso modaiolo.

Come valuteresti il pubblico di AIC?
Un pubblico che è molto cresciuto, si è fidelizzato, si è ringiovanito. Ciononostante, noto con piacere la presenza, anche a concerti “estremi” per certe orecchie, di persone di una certa età. C’è chi ironizza sulla presenza di “signore e signori borghesi”, ma in questo non vedo nulla di male, anzi. Mi ricordo un’anziana signora che, dopo un concerto di Steve Martland, si rivolse al compositore per dirgli quanto la sua musica l’avesse fatta sentire viva. Per quanto io sia felice di un rinnovamento del pubblico, avere persone anziane è per me non meno importante. E’ fondamentale stimolare l’interesse, la crescita spirituale, se si è in grado di farlo: l’età e l’estrazione sociale proprio non contano.

Nella tua attività di professore sei (o sei stato?) ovviamente a contatto coi giovani. Si dice sempre che i giovani sono ignoranti, superficiali, non capiscono un cazzo, e che una volta era tutta campagna. Tu cosa diresti, su giovani e musica?
Diciamo che, a parte una nicchia fortemente acculturata o specializzata al punto dell’intransigenza, i giovani riflettono la debolezza delle strutture culturali, informative e divulgative in Italia. Di fronte a una scuola in cui la musica (e non solo) latita, ad un’università sempre più incline a somministrare “infarinature”, a dei mezzi d’informazione inetti o maldestri, formarsi se non attraverso la propria volontà e la propria capacità individuale non è facile. Internet ha dato un colpo mortale alla critica specializzata (in non so bene che cosa), ma ancora non ha saputo darsi una vera e densa specificità. Purtroppo, le pubblicazioni specializzate (sia quelle italiane, ma non solo) oggi non hanno nulla da offrire, se non a volte una mancanza di conoscenze persino superiore a quella dei loro lettori. Quanto al giornalismo musicale, sorvoliamo per carità di patria. Nel jazz, soprattutto, è venuta a mancare una musicologia costantemente e indiscutibilmente autorevole e, comunque, diventa difficile operare creativamente in un contesto dove gli stessi musicologi aspirano al paludamento accademico, alle sovrastrutture intellettualistiche di facciata, al “ruolo” istituzionale (magari con onori e senza oneri) o salottiero che è stato a lungo appannaggio di certa critica musicale. D’altronde, è comprensibile: siamo in un Paese dove si tiene famiglia e dove, altrettanto comprensibilmente, anche il talento più brillante si stanca di lottare contro i mulini a vento o di rimanere in quel limbo permante che è il precariato. Si aspira al posto fisso, all’insegnamento universitario o conservatoriale, non tanto per desiderio di qualità strutturale ma come raggiungimento di una meta sociale. Inoltre, la “musicologia jazzistica” in Italia ha sofferto di un complesso d’inferiorità tutto provinciale ancorché giustificato, nei confronti della musicologia accademica: il jazz è diventato così atroce banco di prova per una gara di ismi che doveva legittimare il ruolo intellettuale del critico, spesso travisando completamente il senso di molta della storia e della cultura africano-americane. A ciò si aggiunga il retaggio ideologico di un contesto culturale che è sempre stato appannaggio, e giustamente, della Sinistra, ma che della stessa Sinistra, a fronte della vacuità culturale pretenziosa e pretestuosa della Destra nostrana, ha conservato il velleitarismo, la vecchiezza, i pregiudizi, le chiusure, lo sciocco senso automatico di superiorità morale nei confronti anche di quella cultura americana che viene letta e ri-letta con un approccio, erede di un terzomondismo ormai fuori tempo, che rappresenta una vera e propria, indecorosa forma di neo-colonialismo. Non stupisce perciò la sopravvalutazione artificiosa dell’eurocentrismo e di tutte le sue creature più o meno valide, più o meno pallide. Il pubblico, alla fine, è la vera vittima di certi ircocervi. E oggi si affida ben poco alle pubblicazioni cosiddette “specializzate”. Il che non è necessariamente giusto ma, purtroppo, è molto logico. In ogni caso, si tratta di un pubblico che in parte, è vittima del meccanismo perverso che anima una ampia fetta del concertismo italiano, frutto (anche) di camarille, di veti incrociati, di conflitti di interesse, di pressioni di talune case discografiche, di taluni agenti, di taluni promoter, di taluni artisti, e vittima anche di programmazioni che derivano da tutto ciò. E’ ovvio che vi sono manifestazioni più integre, che lavorano duramente e con molti sacrifici ai loro cartelloni, spesso anche con risultati che sono il frutto di notevole inventiva, ma stanno diventando sempre più esigue, sia per carenze di finanziamenti, sia perché non partecipano a determinate spartizioni. Sono rimasto colpito dalla programmazione del tanto annunciato festival di Torino: lasciando perdere il fatto che vi sono, in questo Paese, almeno una decina, se non più, di direttori artistici che sarebbero stati in grado di dare maggiore dignità alla spesa (in parte pubblica, e in una congiuntura economica drammatica) fatta, ad occhio e croce, certo potrei sbagliarmi, direi che il direttore artistico fa da foglia di fico ad una piccola logica spartitoria fra alcune realtà locali. Per carità, le iniziative di casa non vanno strozzate, ma si poteva pretendere una qualità meno claudicante. Si è invece puntato a una robusta dose di panem et circenses, per una bella e buona captatio benevolentiae fatta di concerti gratuiti (il che è svilente, invece, per quelle realtà che, al contrario, debbono esigere un prezzo del biglietto per far quadrare faticosamente i conti). Alla fine, la vittima, inconsapevole o meno, è sempre il pubblico. D’altronde, mi fa anche sorridere la vetusta acclamazione della nostra scena musicale, spesso esaltata con toni da autarchia fascista, in un’ipotetica quanto improbabile “gara” con i talenti (veri e presunti) americani. E’ vero, vi sono molti talenti di pregio nel jazz italiano: quanti di loro, però, lavorano veramente e con profitto, al netto dei molti laudatores di professione? Pochi, pochissimi. E’ altrettanto vero, però, che tali talenti andrebbero maggiormente incoraggiati: il finanziamento pubblico sarebbe dovuto servire anche a questo. Perché detti talenti esistono ma devono avere la possibilità di maturare. Io non amo tutta la produzione di Enrico Rava, e capisco che la sua posizione di quasi-decano possa irritare per i privilegi che possono accompagnarsi al ruolo prolungato: Ma, detto francamente, quanti giovani e meno giovani musicisti italiani hanno la personalità di Rava? Non ne vedo alcuno. Ché a Rava va riconosciuto un percorso coraggioso (non esente da una gavetta vera e propria, dura e in tempi certo non sospetti), va riconosciuto il gusto, va riconosciuta l’intelligenza, va riconosciuta la cultura, va riconosciuto un talento compositivo che sa essere cosmopolita ma, al contempo, squisitamente, liricamente e inconfondibilmente italiano. E’ un musicista che sui propri difetti ha saputo creare una propria cifra innegabile, al di là delle critiche che possono esserle mosse. Artisti italiani che possano vantare non solo un tale pedigree, ma anche la capacità di gestirlo e coltivarlo, non se ne vedono ancora, Stefano Bollani incluso e Paolo Fresu, musicista intelligentissimo e raffinato ma molto derivativo, incluso. Questo capita, d’altronde, quando si è esposti ad una sopravvalutazione colpevole, che agli artisti fa più danno che altro. Mi si potrà dire che “Aperitivo in Concerto” non ospita musicisti italiani: è vero, ho puntato ad altro. Nel mio piccolo ho cercato di guardare oltre le porte di casa. Una scelta che non è certo esente da critiche, ci mancherebbe. Ma, per l’appunto, io non lavoro con fondi pubblici, bensì con fondi privati, certo non abbondanti (credo che alcuni, leggendo le parole Fininvest e Mediaset, pensino a chissà quali budget: una pia illusione. Certo, santi e benedetti, anche se pochi, in un contesto in cui il privato si guarda bene dall’investire. D’altronde, il privato non è tenuto istituzionalmente a investire su certo tipo di ricerca, il suo scopo principale è l’utile. Non sarà piacevole, ma è la realtà: sarebbe auspicabile, invece, che altri privati seguissero l’esempio di “Aperitivo in Concerto”, non sarebbe la panacea ma almeno smuoverebbe le acque di un rigagnolo ormai quasi arido): la mia “mission”, per usare un termine oggi molto in voga, è anche portare pubblico al Teatro Manzoni. E il budget che ho a disposizione non mi permette un’ampia libertà d’azione. Detto questo, credo che la scena italiana potrà beneficiare dei molti talenti che possiede quando si modificherà lo stagnante e perverso sistema concertistico nazionale: purtroppo, con il sempre più esiguo, e spesso male utilizzato, flusso di fondi pubblici, è ipotesi difficilmente realizzabile.

Veniamo al jazz. Come valuti il suo attuale stato di salute?
Il jazz in quanto tale, come Canone, forse non esiste più, tant’è che alcuni artisti, come Marsalis, già vi intravedono da tempo, pur fra polemiche non sempre azzeccate (Marsalis va inquadrato nell’ambito di un certo nazionalismo africano-americano), le possibilità insiste nella “classicità” di un repertorio, che va da Louis Armstrong sino a Charles Mingus. Esiste ancora un mainstream, e persino molto avanzato, ma più che foriero di novità è afflitto e benedetto da una veste strumentale di straordinario virtuosismo, in cui l’idiomaticità africano-americana predomina incontrastata. Rimane però lontano anche dalle masse africano-americane ed è tornato ad essere un linguaggio quasi completamente di nicchia, una sorta di “asset” turistico per gli Stati Uniti, dove tale linguaggio, oltre a essere dato pressoché per scontato, gode, come dicevo, di poca attenzione da parte del pubblico locale. Ma non direi che questo sia un fenomeno nuovissimo, piuttosto è un fenomeno che si ripete, che va ad ondate. In un certo senso, la presidenza Obama ha siglato, in modo simbolico e risonante, la fine del ciclo culturale segnato dal predominio WASP, ed in cui hanno operato, con diversi gradi di difficoltà, generazioni di africano-americani e anche di italiani e di ebrei d’origine europea. Oggi si vanno formando, assecondando pure i diversi flussi migratorii, generazioni di musicisti provenienti dal Medio e dall’Estremo Oriente, dall’America Latina, anche di diversa estrazione ed ascendenza, che propongono nuove sintesi linguistiche. Al contempo, il jazz, come “tool” espressivo, ha dato la stura ad una molteplicità di esperimenti, sincretici o meno, che dal jazz assimilano ma che non si riconoscono, se non molto parzialmente, nel Canone musicale d’origine africano-americana. In questo ambito inserirei anche certi estetismi del Nord Europa, che per alcuni anni hanno trovato nell’ECM una sorta di sopravvalutato araldo. Né si può tacere del fatto che il jazz ha subito molteplici trasformazioni anche dal sempre più frequente interscambio fra musicisti di diversa provenienza ed estrazione, dato che fino alla fine degli anni Sessanta era difficilmente plausibile. Direi che il panorama musicale odierno è, in ogni genere e linguaggio, ricchissimo come mai in precedenza, una fase tumultuosa e magmatica che è però ai suoi esordi per tanti versi e che fa fatica a stabilizzarsi, a cristallizzarsi in un ambito formale definito, anche per la velocità dei plurimi mutamenti che vanno susseguendosi e sovrapponendosi.

E come vedi il rapporto odierno fra Canone, incarnato dalla corrente del mainstream jazz che paradossalmente pare ai margini, e le frontiere? Può svilupparsi ulteriormente?
Il problema non è l’intrinseco valore del mainstream, nel quale africano-americani e americani esercitano un dominio quasi assoluto (certo, da latinoamericani come Arturo Sandoval o Paquito D’Rivera o Diego Urcola o Claudio Roditi, o da taluni artisti europei, che si chiamino Alan Skidmore o Martial Solal o altri ancora, vi sono anche vie non-americane allo sviluppo e all’ammodernamento del mainstream, però rimangono per certi versi marginali o, comunque, ispirati largamente, anche se non sempre, dal modello americano). Piuttosto, è il fatto che l’attuale mainstream è, come dire?, “marinista” in molte delle sue principali manifestazioni. Laddove, ad esempio, l’hard bop portò al mainstream una serie di riallacci fortissimi alla tradizione africano-americana, nonché un patrimonio compositivo di eccezionale valore, a partire dai cosiddetti “young lions” fino ai nostri giorni l’attuale mainstream si è avvalso di eccezionali strumentisti spesso tiepidi nella capacità di rileggere e sviluppare il linguaggio improvvisativo “tradizionale”. E questo pur disponendo di talenti strumentali di assoluto rilievo, da Wynton Marsalis fino a Walter Smith III o Ambrose Akinmusire o Jeremy Pelt o Christian McBride o Jimmy Greene e un’altra pletora di interpreti di diversa età, inclusi fenomeni di interesse più specifico come, che so, tanto per citare, Orrin Evans, Terell Stafford o il purtroppo sfinito Bobby Watson. Come si vede, cito nomi di diversa estrazione e generazione, e potrei citarne decine e decine di altri (viviamo in un periodo storico in cui il talento, sotto varie forme, abbonda e straripa). Più che un vero e proprio “brodo di coltura” come è stato per decenni, oggi il mainstream ha assunto le vesti di una straordinaria (e anche, per certi versi, indispensabile) palestra, di una fucina in cui hanno preso e prendono corpo le personalità di artisti che il più delle volte si dimostrano eccezionali, sofisticatissimi virtuosi (e nel mucchio, se si vuole, potrei inserirvi anche raffinati esploratori del linguaggio contemporaneo come Jerry Bergonzi, George Garzone e un vero e proprio gigante come David Liebman), non necessariamente in grado di delineare svolte -come dire?- “epocali”. E’ vero, si tratta, ormai, di un linguaggio che va sviluppandosi per mutamenti prospettici progressivi e che va sedimentandosi poco a poco ma che non sembra più in grado di recepire la tradizione per “rilanciarla” successivamente sotto nuove vesti decisive. Ma, ripeto, questo ha anche a vedere con i mutamenti del contesto, in una nazione dove, come già detto, si affacciano alla ribalta improvvisatori etnicamente più lontani dalla tradizione africano-americana (cui, invece, rimane legatissimo il filone di derivazione ispano-americana e latinoamericana in generale), da Rez Abbasi a Vijay Iyer o Rudreesh Mahanthappa, l’iracheno Amir ElSaffar o i molti israeliani (i due Avishai Cohen, Shai Maestro, Anat Cohen, Eli Degibri, Rafi Malkiel, Anat Fort, Avi Lebovich, Roni Ben-Hur, Omer Avital) che, per quanto nutritisi alle fonti dell’improvvisazione moderna e contemporanea americana, inseriscono molteplici elementi non più ebraici di tradizione yiddish (un tratto che ha caratterizzato molti esponenti del jazz a partire dagli anni Venti, si trattasse di Milton Mezz Mezzrow, Benny Goodman, Ziggy Elman, Al Cohn, Stan Getz, Joe Bushkin, Mel Powell, Artie Shaw, Herbie Mann e persino Denny Zeitlin, Teddy Charles, Dick Hyman o Steve Lacy) ma ebraici di tradizione mediorientale. E non è un caso che molti di questi interpreti, nel rileggere la tradizione jazzistica affianchino agli standard anche numerose pagine derivate dal rock e dal pop. Non si tratta solo di un fatto generazionale. Lo vediamo anche in Europa, ad esempio, in un fenomeno in incerta ma interessante crescita come Ibrahim Maalouf. Il prossimo mainstream, dunque, difficilmente potrà fare a meno di certi contributi che si distaccano in qualche modo dai tradizionali e storicizzati modelli africano-americani (ed in cui da tempo emergono, comunque, allacci a forme apparentemente di “rottura” come il rap e l’hip hop).

Jazz e Italia: come tutta la cultura, il jazz è innanzitutto un segno di distinzione sociale e solo in seguito, e se siamo particolarmente fortunati, un piacere. Come vedi questa situazione? Trovo abbastanza delirante il modo in cui si è sempre più voluto mettere da parte il jazz americano. Il c.d. mainstream viene accolto con sufficienza, i giovani musicisti americani interessanti (che so, Jason Moran, Christian Scott, Ambrose Akinmusire…) si prendono un trafiletto e poco più, sparare su Wynton Marsalis è prassi comune e frequente, ma se sollevi perplessità sul progetto “The Franco Califano Songbook” di un clarinettista di Pontestazzemese (LU) ti trovi presto accerchiato dal clarinettista, dal discografico e dai sodali e si passa rapidamente dal “sei invidioso” al “ti rigo la macchina”. Insomma, il provincialismo incalza. Colpa del pubblico, della critica, di entrambi?
Credo di avere già risposto in precedenza. E’ una forma di neo-colonialismo violento ed aberrante, che si nutre di perbenismo peloso e di pregiudizi forse inconsapevolmente quasi razzisti, dettati da “ismi” di provenienza vetusta e para-ideologica, un modo perverso di derubare gli africano-americani, e gli americani stessi, di una loro primogenitura culturale.

Cosa suggeriresti a chi volesse diventare direttore artistico?
Non ho la presunzione di dare suggerimenti. Ho abbandonato la docenza anche per questo motivo. Sto già lavorando alla prossima stagione, ma il budget s’è ulteriormente ridotto: inevitabile, purtroppo, di questi tempi.

Mai pensato di scrivere un libro?
Sì, da tempo sto lavorando a un libro sui rapporti fra la musica africano-americana e la nascita di una coscienza etnica negli Stati Uniti.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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