FREE FALL JAZZ

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Non aspettatevi fuochi d’artificio da questa National Orchestra e non aspettatevi le invenzioni dei Lounge Lizard. Questo trio (!) con John Lurie al sax alto e tenore accompagnato da Grant Calvin Weston alla batteria e Billy Martin alle percussioni manca clamorosamente l’obiettivo. La musica, forse per la mancanza di un sostegno armonico e di una linea di basso, tende inevitabilmente a comporre uno stile molto tribale basato sulle percussioni. I pezzi, che potrebbero essere considerati come una parte di una suite, indubbiamente creano, con il notevole tappeto sonoro dei due percussionisti, una atmosfera arcaica da foresta vergine. Quello che purtroppo contrasta è la pochezza del sax del leader: suoni ruvidi, squittii, frasi reiterate e già ascoltate troppe volte nei corso degli anni. (Continua a leggere)

Se la vostra immagine mentale del percussionista è ferma al capellone afro coi pantaloni a zampa che suona le congas a petto nudo… beh, allora è il caso di aprirsi a nuovi orizzonti! Conoscere Leon Pantarei e la sua musica è un’occasione da non perdere: musicista aperto e colto, accoglie nelle sue corde il dub, l’elettronica, il jazz e tanta musica etnica, da Cuba al Pakistan.

Decliniamo al passato: l’etno-dub e i successi con CNI, la tua attività di turnista live e in studio anche in ambito “pop”… Che ricordi hai? Cosa ti è rimasto?
Molto, anzi, direi moltissimo. La storia di Pantarei è stata bellissima e mi ha dato molte soddisfazioni, soprattutto ha sviluppato e perfezionato le mie capacità di autore di musica e testo all’interno di una forma che, pur con tutti i distinguo del mondo “indie”, può essere definita canzone. Poi, di grande importanza e’ il rapporto, che con il progetto Pantarei ho approfondito moltissimo, tra psichedelia del ritmo e concezione psichedelica e mantrica della dance, in un contesto di melting pot percussivo capace di unire il son latino, i ritmi carioca e le pulsazioni orientali, tipo i tala indiani, il konnakhol ed il maquam araboarmeni, il tutto remixato col reggae e il dub, chiaramente. Mi sento una sorta di portabandiera della “contaminazione”: per me, nel terzo millennio, la radicalizzazione della filologia o del monotematismo espressivo suona quasi come una “bestemmia creativa”, come un limite allo sviluppo dei linguaggi. Da sempre sono ossessionato dalla ricerca dell’originalità e, a mio avviso, il massimo dell’originalità non può che scaturire dalla ricombinazione degli elementi o dalla sintesi fra i linguaggi. (Continua a leggere)