FREE FALL JAZZ

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Rileggere John Coltrane non deve essere un’impresa facile per molti musicisti, soprattutto se questa riguarda il periodo finale della sua carriera musicale. Se “A Love Supreme” viene considerata una vetta non facilmente raggiungibile, soprattutto per il pathos e la spiritualità insite nella registrazione, ancor di più lo è “Ascension”, per la difficoltà di reinterpretare una improvvisazione collettiva. (Continua a leggere)

Perché raccomandare un libro uscito oltre 40 anni fa?. Semplice perché in una qualsiasi libreria jazz questo è ancora un valido strumento di studio sulla situazione che c’era (o che c’è ancora) del jazz in Italia. Inoltre il taglio con il quale è stato scritto , come testimone e non come critico, da parte di Cogno dimostra ancora una freschezza che molti dei libri attuali sul jazz non hanno. E’ semplice, diretto va al cuore delle cose. “È un racconto giornalistico formato dalle testimonianze di musicisti, critici, attori, studenti, tutte le piastre di un mosaico alternante in modo solo apparentemente casuale, una sequenza che del jazz ha il ritmo e la visceralità”. Nel libro di Cogno i protagonisti coprono uno spettro vario ed ampio delle tendenze musicali del 1970: Enrico Intra, Giorgio Gaslini, Eraldo Volonté, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Alberto Rodriguez, Giorgio Azzolini, Franco Tonani, Giovanni Tommaso, Franco Pecori, Giorgio Buratti, Claudio Lo Cascio e Mario Schiano. (Continua a leggere)

Ecco tre lavori del catalogo, usciti quasi in successione, dell’etichetta Caligola Records, costola dell’associazione Culturale Caligola di Mestre (VE), che dimostrano, fosse ancora necessario, lo stato della salute del jazz italiano. Tradizione e modernità sembra essere il filo comune dei tre lavori. (Continua a leggere)

Finita anche questa edizione, la 37esima. Il programma presentato quest’anno poteva non essere all’altezza di quello dell’anno scorso, ma invece molte sono state le sorprese come, logicamente, le delusioni. La programmazione al Nexus, alternativa al main stage e denominata Short Cuts, ad esempio ha presentato tutti set di alto interesse. E da qui partiamo… (Continua a leggere)

Lo avevo ascoltato dal vivo l’altr’anno al Jazz&Wine di Cormons, rimasi molto impressionato dalle qualità solistiche ed improvvisative ma, allo stesso tempo, rimanevo molto dubbioso sulla capacità compositiva. Troppi i rimandi a famosi pezzi di gospel, dove dopo una esposizione del tema il nostro si scatenava su cavalcate improvvisative torrenziali, cosa che veniva confermata anche sul disco, dove nonostante la presenza di William Parker e Gerald Cleaver, l’esplosività del suo sax veniva penalizzata dalla restrizione temporale del cd. Invece qui siamo in presenza di titoli strutturati, 19 in totale, dove è autore di tutti i brani ad eccezione di uno, per durate che arrivano fino al massimo di 7 minuti. (Continua a leggere)

Davvero insolito questo ottetto, capeggiato dalla brava Kris Davis al piano e autrice dei brani del CD. Oltre la stessa Davis ci sono Gary Versace all’organo, Nate Radley alla chitarra, Jim Black alla batteria e ben quattro dei più famosi e bravi clarinettisti: Ben Goldberg, Oscar Noriega, Joachim Badenhorst e Andrew Bishop. La musica che si ascolta nel cd, è di grande complessità strutturale, merito della scrittura della Davis, che muove con facilità e incastra alla perfezione le diverse anime del gruppo. La batteria di Black inserisce un’energia di matrice rock dura, cosa tra l’altro già confermata nel proprio gruppo Actuality, l’organo aggiunge colore alle atmosfere dark che i clarinetti realizzano (quando tutti sono al clarino basso), la chitarra sembra distaccarsi dal resto (forse unico neo), e il piano della Davis puntualizza, lasciando agli altri molto spazio. (Continua a leggere)

Nato come duo, il nome prende l’ispirazione dalla composizione di Wayne Shorter ‘Footprints’, e allargatosi a quintetto per questo concerto, è indubbiamente un tributo alla musica di Shorter. Ma il gruppo, oltre a Lovano e Douglas, ci sono il pianista Lawrence Fields, la bassista Linda Oh (un nome da tenere a mente) e il valido batterista Joey Baron, non si presenta solo come un “supergruppo”. In effetti nel disco, registrato dal vivo al Festival di Monterey, oltre due belle composizioni di Shorter, forse le meno conosciute (‘Destination Unknown’ e ‘To Sail Beyond The Sunset’) e di materiale inedito, scritto da Lovano, il gruppo si presenta come una vera entità. (Continua a leggere)

Dopo averlo visto a Mestre nel novembre scorso, ero certo che il nuovo disco sarebbe stato un ulteriore passo in avanti della ricerca creativa. Se il concerto  con i Five Elements riprendeva il discorso iniziale della filosofia M-Base, in questo disco il discorso si allarga, anche dalla presenza, oltre dei Five Elements, di musicisti che ruotano intorno alla cerchia di Coleman, arrivando a sommarne 22. Il disco, che è incentrato sulla Synovial Joints Suite (vedi le note di copertina riportate sotto), rappresenta sicuramente il picco creativo della musica di Coleman, che dopo prove anche troppo prolisse, sembra definire una nuova ricerca del musicista. (Continua a leggere)

Preceduto da recensioni entustiastiche e un ottimo piazzamento nel referendum annuale della Rivista Musica jazz con un terzo posto riguardo i dischi italiani, l’occasione di ascoltare questo ensemble di ben 13 elementi è stata data dal circolo Caligola, anche editore del disco in questione. Rispetto alla formazione del disco qualche variazione: manca dla tromba di Rubegni, che però è stata colmata da ri-arrangiamenti, sostituendola con la tuba e il bombardino di Masetti. La presenza di strumentisti come Piero Bittolo Bon, Beppe Scardino, Francesco Bigoni, Pasquale Mirra e Alfonso Santimone, ormai più che conferme della scena jazzistica italiana, non poteva che scaturire in un bellissimo progetto. (Continua a leggere)

Non aspettatevi fuochi d’artificio da questa National Orchestra e non aspettatevi le invenzioni dei Lounge Lizard. Questo trio (!) con John Lurie al sax alto e tenore accompagnato da Grant Calvin Weston alla batteria e Billy Martin alle percussioni manca clamorosamente l’obiettivo. La musica, forse per la mancanza di un sostegno armonico e di una linea di basso, tende inevitabilmente a comporre uno stile molto tribale basato sulle percussioni. I pezzi, che potrebbero essere considerati come una parte di una suite, indubbiamente creano, con il notevole tappeto sonoro dei due percussionisti, una atmosfera arcaica da foresta vergine. Quello che purtroppo contrasta è la pochezza del sax del leader: suoni ruvidi, squittii, frasi reiterate e già ascoltate troppe volte nei corso degli anni. (Continua a leggere)

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