FREE FALL JAZZ

Finita anche questa edizione, la 37esima. Il programma presentato quest’anno poteva non essere all’altezza di quello dell’anno scorso, ma invece molte sono state le sorprese come, logicamente, le delusioni. La programmazione al Nexus, alternativa al main stage e denominata Short Cuts, ad esempio ha presentato tutti set di alto interesse. E da qui partiamo…

Prima band i giovani austriaci Nampy Bamby Boy. Secondo set, quello naturalmente più atteso, è del quartetto di Jamie Saft: Starlite Motel. Rispetto al disco, da segnalare la presenza di Rune Nergaard al basso elettrico al posto di Ingebrigt Flaten Acker. E il cambio forse ci guadagna. Sempre presente ritmicamente, mantiene sempre alta la tensione perdendosi solo quando gioca con gli effetti elettronici. La musica presentata è un set unico, dove sul tappeto sonoro creato da Saft all’organo il sassofonista Kristoffer Alberts, in un assolo quasi continuo  (forse anche troppo), disegna fraseggi che ricordano Ayler. La batteria di Gard Nilssen puntualizza queste tensioni tra l’urlo di Alberts e la pacatezza di Saft con ottimi dialoghi tra tamburi e piatti. Ecco, forse questo “suonarsi” un po’ troppo addosso non ha dato al quartetto la palma di “vincitore” del festival.

Starlite Motel

Secondo giorno, si inizia sempre al Nexus. Il consolidato duetto tra Tim Berne & Marc Ducret, è una cosa che può essere scontata, ma con due musicisti così è difficile che sia tale. La tessitura delle corde di Ducret ben si inserisce nel racconto molto introverso di Berne. Musica cristallina. Super.

Si affolla il palco del Nexus: 12 musicisti, due batterie, due bassi, fiati, ottoni, chitarra e un percussionista brasiliano con ben cinque (5!) cuica: la Large Unit di Paal Nilssen-Love. Un set unico presentando l’ultimo disco “Ana”, una macchina da guerra che carbura poco a poco e che sfocia in motivi dal forte impatto ritmico, con vaghe reminiscenze di Centipede (la super band inglese di Keith Tippett). Dei tre progetti singoli dei musicisti del gruppo The Thing (Fire Orchestra!, The Young Mothers e Large Unit) questo mi pare quello con più potenzialità di crescita. Una conferma per me.

Large Unit

Si prosegue traslocando al Main Stage alla Congress Hall: salto il gruppo austriaco Hake Stew, setteto diretto dal bassista Lukas Kranzelbinder, ed arriviamo a un’altra bella sorpresa. Il trio Mediums di Vincent Courtois, cello, con Daniel Erdmann e Robin Fincker al tenore. Poteva essere un set estremamente noioso mancando di ritmica, ma la creatività di Courtois, ben integrata dai due sassofoni, ha creato una musica magica. Forse la palma del primo premio spetta a loro.

Vincent Courtois

Cambio atmosfere e spartiti: dalle magie di Mediums si passa al rock, ma proprio duro, dei Krokofant, trio norvegese che solo per curiosità ho seguito, per abbandonarlo poi abbastanza presto! Ultimo sussulto sperato, ma non avveratosi, con il sestetto di Marty Ehrlich, una formazione di stelle che però non hanno saputo brillare, dando l’impressione di essere stati chiamati all’ultimo momento. Diciamo che solo Ehrlich e Ray Anderson hanno brillato, molto sottotono invece Jack Walrath.

Terzo giorno e si parte dal Nexus per il set del claronista tedesco Michael Riessler. Un concerto per clarinetto basso a mezzogiorno poteva essere di una noia mortale, invece, grazie all’utilizzo dei suoni prodotti e filtrati tramite il mixer con varie diavolerie e l’utilizzo quasi continuo della respirazione circolare, ha prodotto un risultato sorprendente. Un dialogo tra due ance che si rincorrono, creando sfumature e variazioni senza mai cadere nel banale. Una grande sorpresa per me: miglior concerto! A seguire, il nuovo progetto di Jim Black, Malamute, che non mi ha convinto per niente: la musica prodotta sapeva di vecchio. Certo, le capacità ritmiche del leader non sono messe in discussione, e forse la formazione non era la più adatta soprattutto sulla capacità del sassofonista Oskar Gudionsson (ma sti nordici suonano tutti?). Si passa alla Congress Hall per sentire il gruppo austriaco Edi Nulz, un trio formato da clarinetto basso, chitarra e batteria che non mi ha lasciato nessun ricordo. Si prosegue con il particolare trio Chiri, formato da due australiani, Scott Winkler (tromba) e Simon Bark (batteria), e dal cantante coreano Bae il Dong. Non rimarrà negli annali la musica, ma la spettacolarità scenica creata dal cantante sicuramente sì! Ritorniamo seri con il quartetto di Tomeka Reid. L’esecuzione troppo perfetta e troppo uguale a quella pubblicata su disco mi ha lasciato freddo e poco coinvolto. Purtroppo questa sta diventando una caratteristica di tutti questi musicisti. Peccato. A risvegliarmi dal torpore ecco un’altra sorpresa: Daniel Rosemboom. Esponente della nuova west coast e cresciuto nell’ambiente di Vinnie Golia, con il suo gruppo ha presentato una musica fresca, ricca di sonorità funky e groove. Da tenere assolutamente d’occhio. Miglior concerto.

Daniel Rosenboom

A riportare la tranquillità, ci pensa il sestetto di Emile Parisien con l’aggiunta di Michel Portal al clarinetto basso e Joachim Kuhn al piano. Un concerto molto piacevole: non innovativo, ma capace di dare qualche brivido sugli assoli sia del leader che di Portal e Kuhn. Ne sentiremo ancora parlare: secondo posto in fiducia. Chiude la serata la banda di Thomas de Pourquery con Supersonic, progetto dedicato a Sun Ra. Prendere musicisti al di fuori della scena jazz e farli suonare sulle musiche di Sun Ra è una scelta coraggiosa, che alla fine ripaga anche grazie alla presenza scenica della band. Una maniera giusta di chiudere a notte fonda con la musica!

The Hot 9

Quarto giorno con l’apertura del quintetto di Susana Santos Silva, trombettista portoghese. Protagonista nell’orchestra di Adam Lane e adesso molto attiva nell’area dell’improvvisazione più radicale, ha offerto un set alquanto noioso. Brava nelle sonorizzazioni lente quasi sussurrate, si perde quando la ritmica accenna tempi veloci. Sicuramente la dimensione del duo le giova di più. Da rivedere! Saltiamo a piè pari Erlend Apneseth Trio (che c’azzeccano questi???) e arriviamo al gruppo più atteso: Human Feel, ossia Chris Speed, Andrew D’Angelo, Kurt Rosenwinkel e Jim Black. Poteva dare l’idea di una rimpatriata, visto che il loro ultimo disco è del 2007, invece l’esperienze dei singoli hanno permesso la creazione di nuova musica pronta per un nuovo disco. Anche questo miglior concerto! Saltone a piè pari del progetto italo/svizzero/finlandese (ancora?) Biondini/Niggli/Schaerer/Kalima e via di gran finale con Henry Butler & Steven Bernstein & The Hot 9. Ragtime, boogie, R&B, ma anche Ellington. Tradizione e modernità si fondono anche grazie agli arrangiamenti di Bernstein in funzione di moderno Cab Calloway, che oltre a suonare dirige. La gente si diverte, balla e applaude convinta. Ed anch’io lo faccio, perché fondamentalmente la musica a questo deve portare. Al prossimo anno! (Maurizio Zorzi)

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