FREE FALL JAZZ

bluesy blues's Articles

Se vi capita di avere a che fare con un interlocutore che si dichiara jazzista o un semplice appassionato del jazz, per verificare se lo è davvero, chiedetegli cosa è per lui il blues. (Continua a leggere)

Dopo quasi cinquant’anni dalla sua morte, trascorsi tra mito e aneddotica relativa, tra coltranismi, modalismi, spiritualismi e avanguardismi vari, insomma tutta la serie di -ismi ai quali è affezionata una vasta porzione di appassionati, sarebbe interessante effettuare una verifica critica sedimentata circa l’opera di John Coltrane, la sua discografia e la relativa eredità musicale. Tema assai ampio e impegnativo che certo non si può dibattere in sede di una breve recensione. Che si stia parlando di uno dei giganti autentici di questa musica, non vi è alcun dubbio. Che la sua discografia sia da prendere integralmente per oro colato come fanno in molti, è un’altra faccenda e sarebbe cosa poco seria, più prossima al fanatismo da collezionista che alla onesta valutazione musicale. (Continua a leggere)

Il blues lo conosciamo tutti. Il suo ruolo fondamentale nella generazione della musica moderna è fuori discussione: una forma semplicissima che è il seme di mille avventure sonore, sempre attuale in mano agli artisti giusti. La cosiddetta americana invece è un termine meno noto, sorto negli anni ’90 e di definizione ancora controversa. Un termine-ombrello che comprende quelle musiche di derivazione folk, country, rhythm’blues e rock’n'roll in forma genuina, in contrapposizione alle versioni più edulcorate presenti nei circuiti dei grossi media. JD Allen, col suo fantastico trio, sembra oggi interrogarsi sul rapporto fra i due, e non solo. Dov’è quindi il blues? Dov’è l’americana? La flessibilità e la versatilità di questi linguaggi, sembra dirci JD, rende oziosa la domanda e superfluo il confine, perché entrambi sono il nucleo stesso del suono americano. (Continua a leggere)

Marcus Roberts aveva pubblicato la suite ‘Deep In The Shed’ già nel 1990, nel disco omonimo per Sony. Riprenderla dal vivo per una serie di concerti al Lincoln Center nel 2008 gli ha dato l’idea di registrarla ancora in una nuova, e definitiva, versione ampliano l’organico originale da sei a nove musicisti. Del vecchio gruppo, oltre al leader, è presente il solo Wess Anderson al sax contralto e al sopranino; il nonetto viene poi completato da una serie di vecchie e nuove conoscenze come Jason Marsalis alla batteria, due allievi del pianista (il trombettista Alphonso Horne e il tenorista Ricardo Pascal) e veterani della JLCO come il superbo Marcus Printup alla tromba, Stephen Riley al tenore e Ron Westray al trombone. La nuova frontline con tre sassofoni, due trombe e un trombone fa pensare alle formazioni della New Orleans che fu, ed infatti ‘Deep In The Shed’ si abbevera a questa fonte in maniera evidente. (Continua a leggere)

Nel 1962 il mondo del jazz iniziava a chiedersi se fosse possibile uscire dalla forma chorus. Molti musicisti risposero affermativamente a questa domanda, dando così vita ad una serie di movimenti innovativi con vari gradi di prudenza e/o rischio. Tuttavia di questi movimenti non ci importa un bel niente, almeno ora. Vi proponiamo infatti una bellissima mezz’ora di sua maestà Coleman Hawkins, registrato a Bruxelles nel 1962. Hawk in quel periodo pubblicava una serie di album bellissimi e pure dal vivo, come dire… spaccava ancora il culo. Abbiamo le prove.


Darius Jones, fra i più interessanti giovani contraltisti emersi negli ultimi anni, non ama stare con le mani in mano. Eccolo quindi col suo terzo album (quarto se si include quello realizzato assieme a Matthew Shipp) da leader in poco più di tre anni, sotto l’egida della sempre interessante AUM Fidelty. Al solito, la formazione è del tutto cambiata: troviamo il contrabbasso di Trevor Dunn, il piano di Matt Mitchell e la batteria di Ches Smith, mentre non è cambiato il bellissimo sax del corpulento leader, dal suono cremoso e bluesy che riporta alla luce Johnny Hodges e Cannonball Adderley. Quelle note vibranti, appassionate, ricche di vibrati e glissando, del resto parlano chiaro, e va reso merito a Jones di aver recuperato un tipo di sonorità oggi quasi estinta. Venendo a ‘Book Of Ma’bul’, ci troviamo di nuovo catapultati nel mondo schizofrenico già evocato in passato, in costante bilico fra recupero delle fonti (il blues, il gospel, Charlie Parker e Ornette Coleman) e la relativa distorsione, spesso e volentieri sorprendente. Il quartetto è davvero bravissimo nel costruire un’aspettativa e poi cambiare totalmente registro in un secondo, ma con naturalezza, senza caos né voglia di strafare. (Continua a leggere)

Tanto di cappello alla potenza di internet, che nel giro di un paio di clic permette di scovare le cose più belle e inaspettate. Warren Haynes, leader dei Gov’t Mule, uno dei pochi esempi di come ancora oggi sia possibile fare rock abbeverandosi alla più viscerale tradizione settantiana senza suonare né “finti” né fuori tempo massimo, non ha bisogno di troppe presentazioni. Di Ron Holloway, una vita da mediano dell’ancia (nel’accezione più “nobile” del termine),  invece vi abbiamo già parlato abbondantemente. I due hanno fatto comunella su ‘Man In Motion’, ultima fatica solista di Haynes all’insegna del blues più epidermico, e la rete, appunto, ci consente di mettere le mani su un filmatino amatoriale girato circa un anno fa nel Maryland, al Delfest 2011, in cui regalano una bella versione del classico di Sam Cooke ‘A Change Is Gonna Come’. Peccato per il parlottare del pubblico, che a tratti rompe davvero i maroni, ma ne vale ugualmente la pena.

So che un critico, forse il mitico Arrigo Polillo, definì una volta i musicisti della vecchia guarda e della swing era “la riserva aurea del jazz”. In effetti, spesso e volentieri bastava metterli assieme in lunghe jam session per ritrovarsi fra le mani dell’ottima musica. Norman Granz, storico impresario, queste cose doveva saperle bene quando fondò la Pablo Records, un’etichetta con cui dare ancora spazio ai vecchi leoni nei problematici anni ’70. Fra le prime uscite per Pablo troviamo ‘Basie Jam’ del ’73, una sessione di blues guidata dal vecchio Basie, che certo non ha alcun bisogno di presentazioni.

Non si tratta di un album con l’orchestra al completo: radunato un ottetto di swinger e bopper come Zoot Sims, Lockjaw Davis, Louis Bellson, Harry Edison, Ray Brown, JJ Johnson e Irving Ashby, Basie lo guida attraverso cinque lunghi blues. Si parte subito in quinta, dopo una breve intro di piano, con la veloce ‘Doubling Blues’, ci si rilassa con lo swingante tempo medio di ‘Hanging Out’, si riprende volentieri quota con ‘One Nighter’ e ‘Freeport Blues’. La materia di ‘Basie Jam’ è dunque la pietra angolare del jazz stesso, e qui dentro risplende di tutta la bellezza del suono più classico che ci sia, grazie alla batteria potente e sottile di Bellson, al basso legnoso di Ray Brown, ai tenori grassi e voluminosi di Davis e Sims (qui più ‘hot’ del suo solito), alla chitarra graffiante di Ashby, al meraviglioso trombone rotondo di Johnson e, ovviamente, al grande capo, che si sdoppia fra piano e organo. (Continua a leggere)