FREE FALL JAZZ

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Il 2017 è appena nato ed esce, pubblicato dalla JandoMusic/ViaVenetoJazz, “A beautiful Story”, ultima fatica di Rosario Bonaccorso che, con il suo quartetto (D.Rubino, E.Zanisi e A. Paternesi), ci offre 12 sue inedite composizioni. Atmosfere delicate, sonorità dolci, sono il leit motiv di quest’opera che presenta, da subito, peculiarità e scelte stilistiche molto precise. I temi sono molto semplici, a volte leggeri e sovente malinconici, hanno il ruolo di colorare timbricamente momenti in cui il quartetto è pensato come un’orchestra novecentesca. Ricorrono, in tutto il CD, espedienti motivici poco sviluppati, ma funzionali alla resa sonora collettiva. Quest’attitudine condiziona anche gli assoli che sviluppano poco l’aspetto ritmico/melodico per rimanere ancorati alla visione d’insieme. C’è un netto rifiuto del virtuosismo in favore di un’essenzialità, sia in fase compositiva che nella prassi. (Continua a leggere)

Se la battaglia per riportare di nuovo il jazz (senza sconti né ruffianerie) in mezzo al pubblico casuale sembra persa in partenza, purtroppo, gli Industrial Revelation sono uno di quei nomi che meglio potrebbe riuscire ad oltrepassare i confini del ghetto jazzistico e farsi apprezzare. Il quartetto di Seattle, guidato dal batterista e compositore D’vonne Lewis, sintentizza un sound moderno, originale, sofisticato ed accessibile, anche nel caso di un imponente doppio album come ‘Liberation & The Kingdom On Nri’. Groove e melodia sono i due punti essenziali degli Industrial Revelation, che costruiscono i loro brani sull’energia ritmica, armonie quasi pop e splendide melodie, con grande risalto per la tromba di Ahamefule J. Oluo: il suono robusto, l’attacco esplosivo, lo stile quasi cantato e squillante si ricollegano alle grandi trombe del sud, da Louis Armstrong a Clark Terry fino a Nat Adderley e Wynton Marsalis. (Continua a leggere)

Il bassista Peter Brendler è uno dei giovani jazzisti più in vista della scena jazz newyorkese. Cresciuto a Baltimora, nel Maryland, ha iniziato i suoi studi musicali al basso elettrico passando ben presto allo strumento acustico, ma sa suonare anche chitarra e pianoforte. Ha conseguito la laurea in musica nel 2001 al Berklee College of Music a pieni voti. Dopo aver completato gli studi a Boston, Brendler si è trasferito a New York, dove ha conseguito il Master in Musica al Manhattan School of Music, studiando con il bassista Jay Anderson, così come con altri luminari come Dave Liebman, Garry Dial, e Phil Markowitz. Nel quindicennio nel quale Brendler ha stazionato a New York ha fatto numerose apparizioni come sideman in svariate registrazioni. Si è esibito con artisti come John Abercrombie, Rich Perry, Victor Lewis, Barry Altschul, Frank Kimbrough e Jon Irabagon, tra gli altri. (Continua a leggere)

Pianista dallo stile sobrio ed elegante, Danny Grissett si è fatto conoscere in primo luogo per la lunga militanza nel quintetto di Tom Harrell, con cui ha inciso diversi ottimi album, nonché al fianco di Jeremy Pelt, Jimmy Greene, Lage Lund e molti altri. Può vantare anche una consistente discografia da leader, di cui ‘The In-Between’ è il quinto capitolo. Cinque standard, incluse belle versioni di ‘Stablemates’, ‘The Kicker’ e ‘How Deep Is The Ocean’, e cinque brani originali, una notevole varietà di situazioni e atmosfere, ma la comune volontà di esplorare le premesse del tema tenendosi vicini al carattere emotivo del tema stesso, prendendosi tutte le libertà del caso con la forma: è questa, ascolto dopo ascolto, la sensazione che si ricava. (Continua a leggere)

Wadada Leo Smith è in una fase estremamente prolifica della sua vita. A ridosso di ‘The Great Lakes Suite’, interessante uscita in quartetto con veterani della sua generazione (speriamo di parlarne presto), eccolo subito sul mercato con ‘Red Hill’. Assieme a Leo Smith troviamo tre giovani musicisti che spesso hanno collaborato fra di loro negli ultimi anni, ovvero Jamie Saft (piano/tastiere), Joe Morris (contrabbasso) e Balasz Pandi (batteria); i lavori, a quanto pare, si sono svolti in maniera informale, tutti in studio e buona la prima senza alcun materiale preparato in anticipo. Il risultato è un disco cupo, quasi spettrale, organizzato in sei lunghi brani (dai sei ai sedici minuti) privi di qualsivoglia nucleo tematico, cellula ritmica o in generale appiglio per l’ascoltatore. (Continua a leggere)

Jaleel Shaw può vantare una serie di collaborazione eccellenti (la Mingus Big Band, Christian McBride, vari lavori come sideman in svariati contesti, una lunga permamenza alla corte di Roy Haynes) e una carriera in solitario, in proporzione, esigua. ‘The Soundtrack Of Things To Come’ è infatti il suo terzo album da leader, di nuovo autoprodotto per la sua Changu Records. Ed è una sterzata netta dal precedente ‘Optimism’: anziché un elaborato post-bop calato in una dimesione meditativa e per certi versi da camera,  con strumentazione e formazione mutevole, il nuovo disco è un più energico lavoro in quartetto. Quattro dei brani sono il risultato delle commissioni di un museo newyorkese, che voleva musica ispirata ad altrettanti quadri, mentre gli altri sono ispirati ad eventi della vita privata del sassofonista. (Continua a leggere)

L’armonica a bocca non è certo il primo strumento che ci viene in mente, quando si parla di jazz. La sua scarsissima presenza è da un lato comprensibile, a causa di un volume di fuoco limitato, soprattutto a fianco dei fiati. Dall’altro meno, vista la lunghissima associazione col blues, che è pur sempre uno dei mattoni fondanti del jazz stesso. Sia come sia, di album a base di armonica non ce ne sono così tanti, come pure di armonicisti di riferimento. Si resta dunque colpiti dall’album di Enrico Testa, chitarrista e armonicista (proprio come Toots Thielemans). ‘Chromatic Life’ è un lavoro molto fresco che unisce una sezione ritmica, appunto, classicamente jazz e perfettamente inserita nel linguaggio mainstream, a chitarra e armonica, suonate dal leader. Gli undici brani sono caratterizzati da temi davvero orecchiabili e arrangiamenti molto curati che mirano all’equilibrio e alla perfetta enunciazione delle melodie, sempre molto chiare ed evidenti tanto negli assolo quanto nei momenti d’insieme. (Continua a leggere)

Darius Jones, fra i più interessanti giovani contraltisti emersi negli ultimi anni, non ama stare con le mani in mano. Eccolo quindi col suo terzo album (quarto se si include quello realizzato assieme a Matthew Shipp) da leader in poco più di tre anni, sotto l’egida della sempre interessante AUM Fidelty. Al solito, la formazione è del tutto cambiata: troviamo il contrabbasso di Trevor Dunn, il piano di Matt Mitchell e la batteria di Ches Smith, mentre non è cambiato il bellissimo sax del corpulento leader, dal suono cremoso e bluesy che riporta alla luce Johnny Hodges e Cannonball Adderley. Quelle note vibranti, appassionate, ricche di vibrati e glissando, del resto parlano chiaro, e va reso merito a Jones di aver recuperato un tipo di sonorità oggi quasi estinta. Venendo a ‘Book Of Ma’bul’, ci troviamo di nuovo catapultati nel mondo schizofrenico già evocato in passato, in costante bilico fra recupero delle fonti (il blues, il gospel, Charlie Parker e Ornette Coleman) e la relativa distorsione, spesso e volentieri sorprendente. Il quartetto è davvero bravissimo nel costruire un’aspettativa e poi cambiare totalmente registro in un secondo, ma con naturalezza, senza caos né voglia di strafare. (Continua a leggere)