FREE FALL JAZZ

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Ci sono luoghi comuni nella critica jazz nostrana che paiono servire più a farsi accettare dal “branco” che a qualificarsi per competenze in materia. Ciò succede per diverse ragioni che qui non possiamo seriamente analizzare, ma la principale delle quali pare andare oltre il jazz ed essere legata alla diffusa abitudine nel nostro paese di conformarsi a certo sentire comune, se non ad un vero e proprio pensiero unico. Curioso atteggiamento questo da mostrare verso una musica che ha fatto storicamente dell’anticonformismo una sua ragion d’essere. La radice autentica del problema temo però che sia da ricercare in un ambiente intorno a questa musica decisamente invecchiato, divenuto troppo ristretto, autoreferenziale e fermo a schemi critici che paiono ormai abbondantemente superati e sostanzialmente fallaci, nonostante si pretenda di farli sembrare ancora “aggiornati”. (Continua a leggere)

Di un musicista importante ed interessante come Don Byron, ahinoi, non abbiamo mai scritto niente. Chiediamo venia, e nel frattempo condividiamo questo interessante concerto: registrato tre anni fa a New York, vede il clarinettista alla guida di una nuova band, chiamata New Gospel Quintet e incentrata su un repertorio (ovviamente) gospel.


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Uno dei cliché critici su Duke Ellington comunemente accettati, recita che egli debba fondamentalmente la sua fortuna e eccezionale fertilità compositiva, senza pari nella storia del jazz, alla intima condivisione artistica e musicale con Billy Strayhorn, che data dal 1938 sino alla sua morte avvenuta nel 1967. In realtà, la cosa è molto più discutibile di quanto non appaia in prima istanza, in quanto, se si va ad indagare meglio, si scopre che, sia prima dell’avvento di Strayhorn in orchestra, che dopo quel lungo intervallo di tempo, Ellington ha scritto decine di composizioni capolavoro. Di più, oserei dire che gli ultimi anni, in particolare, hanno mostrato un Ellington ancora in eccezionale vena creativa, in grado di sfornare una serie di pagine a largo respiro che sono considerabili tra i massimi capolavori della sua discografia e, conseguentemente, dell’intero jazz. (Continua a leggere)

Prosegue la condivisione domenicale di filmati della serie ‘Beyond Category’, visto che sono ottimi e numerosi. Oggi tocca al trio del bravissimo James Brandon Lewis, autore di uno dei dischi più acclamati del 2014.



Jason Moran è uno grandi leader del jazz contemporaneo di cui, colpevolmente, ancora non abbiamo mai recensito niente. (Continua a leggere)

Brian Blade è uno dei più noti e apprezzati batteristi contemporanei, con molte collaborazioni all’attivo, non ultima quella con Wayne Shorter. Meno nota è l’attività del Brian Blade leader, alla guida del suo gruppo Fellowship che dura ormai stabilmente da quindici anni. Accompagnato dai fidi sassofonisti/clarinettisti Myron Walden e Melvin Butler, dal pianista Jon Cowherd, dal bassista Chris Thomas, Blade cambia un paio di chitarristi lungo la via (manca Kurt Rosenwinkel, sostituito alternativamente da Jeff Parker e Marvin Sewell) e prosegue lungo l’indirizzo stilistico a lui congeniale. E quindi, l’esplorazione jazzistica dell’arcipelogo “americana”, in un’originale declinazione del verbo di Bill Frisell e Ron Miles. (Continua a leggere)

Darius Jones, fra i più interessanti giovani contraltisti emersi negli ultimi anni, non ama stare con le mani in mano. Eccolo quindi col suo terzo album (quarto se si include quello realizzato assieme a Matthew Shipp) da leader in poco più di tre anni, sotto l’egida della sempre interessante AUM Fidelty. Al solito, la formazione è del tutto cambiata: troviamo il contrabbasso di Trevor Dunn, il piano di Matt Mitchell e la batteria di Ches Smith, mentre non è cambiato il bellissimo sax del corpulento leader, dal suono cremoso e bluesy che riporta alla luce Johnny Hodges e Cannonball Adderley. Quelle note vibranti, appassionate, ricche di vibrati e glissando, del resto parlano chiaro, e va reso merito a Jones di aver recuperato un tipo di sonorità oggi quasi estinta. Venendo a ‘Book Of Ma’bul’, ci troviamo di nuovo catapultati nel mondo schizofrenico già evocato in passato, in costante bilico fra recupero delle fonti (il blues, il gospel, Charlie Parker e Ornette Coleman) e la relativa distorsione, spesso e volentieri sorprendente. Il quartetto è davvero bravissimo nel costruire un’aspettativa e poi cambiare totalmente registro in un secondo, ma con naturalezza, senza caos né voglia di strafare. (Continua a leggere)


Se esistesse un videogioco sul sassofono, James Carter sarebbe probabilmente il boss dell’ultimo livello. Sorta di Illinois Jacquet filtrato da Rashaan Roland Kirk, questo musicista controverso e sui generis è uno dei grandi irregolari del jazz odierno, tanto eclettico quanto di fatto inclassificabile. Il suo attaccamento alle radici blues, gospel, soul e rhythm’n'blues è fortissimo, e pervade in un modo o nell’altro tutta la sua opera, tesa a omaggiare, rielaborare e rinvigorire il grande continuum della musica nera mettendone in scena, di volta in volta, un particolare aspetto – tutti gli altri ne diventano subordinati ma sono sempre presenti, in una prassi della convivenza di svariate epoche jazzistiche solo apparentemente postmoderna. Carter ama infatti la citazione, il grottesco e l’ironia, ma non il distacco e la manipolazione cinica. Quest’anno sono usciti ben due album, stilisticamente e concettualmente agli antipodi, che ribadiscono ancora una volta lo sconfinato talento di questo geniale, sorridente gigante.

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Se due genitori chiamano i loro gemelli Rahsaan e Roland, vuol dire che hanno una grandissima passione per il jazz e in particolare per Rahsaan Roland Kirk. Al punto che nessuno forse si sorprenderebbe se, crescendo, i gemellini diventassero per reazione spacciatori, scienziati della comunicazione o, peggio ancora, turnisti prog metal. Fortunatamente non è andata così, e mentre Roland è diventato un valente trombonista, il qui presente Rahsaan ha padroneggiato i sassofoni (soprano, contralto, tenore) e il flauto, e pubblica il suo secondo album per la sua casa discografica – un bel progetto, nelle intenzioni destinato a portare alla luce la negletta scena jazz di Nashville.

‘Everyday Magic’ è un esempio di jazz contemporaneo fortemente rootsy, con saldissime ed evidenti radici nel soul, nel gospel, nel funk e ovviamente nel blues. Rahsaan cita come sue principali ispirazioni John Coltrane e Stanley Turrentine, il che è perfettamente coerente col sound proposto: se il primo è ormai una fonte di riferimento essenziale per la tecnica e la pronuncia sassofonistica moderna, il secondo è un modello espressivo, oggi poco considerato, che qui dentro trova immediata eco nello suono vibrante, soulful, del tenore, e nelle composizioni, che più di una volta si riallacciano all’era del soul jazz. (Continua a leggere)