FREE FALL JAZZ

Il bassista Peter Brendler è uno dei giovani jazzisti più in vista della scena jazz newyorkese. Cresciuto a Baltimora, nel Maryland, ha iniziato i suoi studi musicali al basso elettrico passando ben presto allo strumento acustico, ma sa suonare anche chitarra e pianoforte. Ha conseguito la laurea in musica nel 2001 al Berklee College of Music a pieni voti. Dopo aver completato gli studi a Boston, Brendler si è trasferito a New York, dove ha conseguito il Master in Musica al Manhattan School of Music, studiando con il bassista Jay Anderson, così come con altri luminari come Dave Liebman, Garry Dial, e Phil Markowitz. Nel quindicennio nel quale Brendler ha stazionato a New York ha fatto numerose apparizioni come sideman in svariate registrazioni. Si è esibito con artisti come John Abercrombie, Rich Perry, Victor Lewis, Barry Altschul, Frank Kimbrough e Jon Irabagon, tra gli altri. Ha anche registrato tre album come leader: The Angle Below (Steeplechase), assieme a John Abercrombie, questo Outside the Line (Posi-Tone) del 2014, vero e proprio debutto da unico leader e che sto per recensire, e il più recente Message in Motion (Posi-Tone).

Si può affermare che Peter Brendler faccia parte di quella affollata schiera di musicisti odierni in possesso di una brillante preparazione e una vasta gamma stilistica a propria disposizione, in una forma di eclettismo per certi versi molto apprezzabile ma per altri abbastanza “pericolosa”, nel senso che spesso rischia di impedire l’affermazione di una propria originale identità musicale, di un proprio suono e di un proprio stile. D’altronde la cosa è per certi versi prevedibile, considerando la pletora di scuole di jazz più o meno famose e importanti distribuite nel mondo che col tempo si sono formate in seguito alla presenza di uno storico jazzistico che ha ormai oltrepassato il secolo di vita e dalle quali fuoriescono quasi tutti i jazzisti delle nuove generazioni. Sta di fatto che il disco è decisamente buono e mostra un’efficace versatilità sia dei musicisti che nella scelta dei brani da eseguire. La formazione in quartetto senza pianoforte è una via di mezzo, tra un addolcito quartetto colemaniano con Don Cherry (non a caso il trombettista usa anche la pocket trumpet, ma suonata con uno stile molto più levigato ed “accademico” rispetto al predecessore) e i quartetti di Dave Douglas, giusto per dare qualche riferimento di massima.

Ci sono in programma versioni originali di tre noti brani di un repertorio non solo jazzistico, molto diversi tra loro dal punto di vista della scelta di genere, ma interpretati davvero bene e in modo incisivo. Si tratta di un sorprendente Freeway, una delle rare composizioni di Chet Baker eseguita al tempo con il pianoless quartet di Gerry Mulligan, di Una Muy Bonita, brano di Ornette Coleman tratto da Change Of The Century (Atlantic, 1959) e  Walk On The Wild Side di Lou Reed. Emergono in questi titoli i consistenti contributi di Peter Evans, un talentuoso trombettista ormai ben noto per abilità, fantasia e grande ampiezza di vedute musicali, e di Rich Perry, solido tenorsassofonista di Cleveland avvezzo ad ambiti del jazz più ortodossi. In un certo senso si potrebbe affermare di essere di fronte all’ennesima versione di un ”mainstream contemporaneo”, che sembra porsi l’obiettivo di progredire musicalmente per gradi miscelando al meglio innovazione e generi musicali diversi, non solo cioè stili jazzistici come be-bop e free jazz. Una operazione per lo più sottostimata e un po’ snobbata dai fan delle avanguardie più rigorose ed intransigenti, ma forse anche più duratura e per niente semplice da attuare, che cela in sé una azione meritoria, depurata da possibili velleitarismi e iconoclastie che non di rado si presentano in eccesso nella pur necessaria ricerca musicale.

Le composizioni originali di Brendler si muovono sostanzialmente  sul terreno della sintesi sopra accennata: The Golden Ring, pur in un approccio più tonale, sembra tenere bene in mente l’insegnamento del quartetto colemaniano; Blanket Statement e Farmacology si attestano in prossimità a schemi hardboppistici con temi eseguiti all’unisono dai fiati, mantenendo però negli arditi interventi di Peter Evans uno spunto musicale più avanzato. Openhanded e il brano nettamente più “free” del disco, Drop The Mittens possiede invece un bel ritmo ben sostenuto dal contrabbasso di Brendler, permettendo a Perry e Evans di librarsi in efficaci assoli estesi. The Darkness pare ricollegarsi in chiave ammodernata a certi brani di atmosfera tra fine anni ’30 e inizio ’40 in stile Duke Ellington/Cab Calloway, con basso e batteria a fare da sfondo al fiato solista. Blackout Reunion è invece una sorta di aggiornata ballad in cui la tromba di Evans, inizialmente sordinata, passa poi ad aperta per poi tornare alla condizione iniziale, esaltando le intenzioni timbriche ed espressive del brillante trombettista. In sintesi: un lavoro riuscito e un esordio da leader decisamente convincente.
(Riccardo Facchi)

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