FREE FALL JAZZ

Darius Jones, fra i più interessanti giovani contraltisti emersi negli ultimi anni, non ama stare con le mani in mano. Eccolo quindi col suo terzo album (quarto se si include quello realizzato assieme a Matthew Shipp) da leader in poco più di tre anni, sotto l’egida della sempre interessante AUM Fidelty. Al solito, la formazione è del tutto cambiata: troviamo il contrabbasso di Trevor Dunn, il piano di Matt Mitchell e la batteria di Ches Smith, mentre non è cambiato il bellissimo sax del corpulento leader, dal suono cremoso e bluesy che riporta alla luce Johnny Hodges e Cannonball Adderley. Quelle note vibranti, appassionate, ricche di vibrati e glissando, del resto parlano chiaro, e va reso merito a Jones di aver recuperato un tipo di sonorità oggi quasi estinta. Venendo a ‘Book Of Ma’bul’, ci troviamo di nuovo catapultati nel mondo schizofrenico già evocato in passato, in costante bilico fra recupero delle fonti (il blues, il gospel, Charlie Parker e Ornette Coleman) e la relativa distorsione, spesso e volentieri sorprendente. Il quartetto è davvero bravissimo nel costruire un’aspettativa e poi cambiare totalmente registro in un secondo, ma con naturalezza, senza caos né voglia di strafare. I temi, tutti molto belli e facili da ricordare, stabiliscono il clima e l’atmosfera del pezzo, che poi si evolve per dilatazioni e contrazioni progressive, come un organismo: se l’ultimo quartetto di Wayne Shorter ripartisse dal blues e da un’espressività più viscerale non saremmo molto lontani. Il bel piano di Mitchell è impegnatissimo a tessere una miriade di ghirigori ora più accesi ora più meditati, non di rado in opposizione con l’umore del sassofono. Dal canto loro, Dunn e Smith imprimono alla band un dinamismo che disorienta, all’inizio, grazie alle improvvise deviazioni, ma che poi si ritrova sempre pronto a seguire le traiettorie del leader, dai poderosi blues alle più tenere esplorazioni melodiche. Perché Darius Jones, alla fine, è un romantico, e non vi urlerà mai nelle orecchie: alzerà la voce per farsi capire, ma senza mai esagerare. Sono infatti ‘Winkie’ e ‘The Fagley Blues’ i brani davvero incandescenti; il resto del disco procede su tempi medi languidi e pensosi, con la temperatura che aumenta un po’ alla volta, a fuoco lento.

Il cammino di Darius Jones prosegue, con esiti sempre migliori. Non fate gli gnorri, perché ve lo avevamo detto!
(Negrodeath)

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