FREE FALL JAZZ

Dopo quasi cinquant’anni dalla sua morte, trascorsi tra mito e aneddotica relativa, tra coltranismi, modalismi, spiritualismi e avanguardismi vari, insomma tutta la serie di -ismi ai quali è affezionata una vasta porzione di appassionati, sarebbe interessante effettuare una verifica critica sedimentata circa l’opera di John Coltrane, la sua discografia e la relativa eredità musicale. Tema assai ampio e impegnativo che certo non si può dibattere in sede di una breve recensione. Che si stia parlando di uno dei giganti autentici di questa musica, non vi è alcun dubbio. Che la sua discografia sia da prendere integralmente per oro colato come fanno in molti, è un’altra faccenda e sarebbe cosa poco seria, più prossima al fanatismo da collezionista che alla onesta valutazione musicale. Personalmente ritengo, in estrema sintesi, il periodo più creativo e influente di Trane quello che parte da Giant Steps e arriva ad  A Love Supreme, ma se dovessi restringere ancor più il campo, indicherei probabilmente le sue incisioni Atlantic da leader fatte tra il 1959 e il 1961.

Tra queste incisioni, quasi tutte dei capolavori, un album relativamente meno citato rispetto ad altri e che suona ancora oggi fresco e innovativo è Coltrane Plays The Blues. Si è descritto spesso e in modo quasi maniacale, Coltrane come uomo guida dell’avanguardia, specie per quel che riguarda il suo ultimo periodo “spiritual-free”, seguito alla sua adesione alla cosiddetta New Thing, ma in questo modo si rischia di dimenticare che Coltrane, sin dagli inizi, si era costruito una reputazione come grande interprete del blues e in questo disco ne dava ampia dimostrazione in chiave ovviamente rinnovata.

Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare da un progetto formalmente “monotematico” come questo, il disco risulta di una varietà musicale ed espressiva davvero rara e sorprendente, affrontando diversi aspetti di una delle radici fondanti e più frequentate della musica degli afro-americani, visto però in una chiave interpretativa legata all’approccio modale in improvvisazione che Coltrane al tempo stava sviluppando.

La cosa interessante da notare, soprattutto per i convinti assertori odierni della necessità generalizzata di una maggiore complessità formale nel jazz, è che i temi proposti sono di una semplicità sbalorditiva, quasi dei pretesti per poter improvvisare, in alcuni casi quasi inesistenti. Eppure il sassofonista di Hamlet ne ha ricavato dei  capolavori. D’altronde egli è stato uno dei più grandi improvvisatori della storia del jazz, un autentico “compositore istantaneo”, per il quale non era perciò essenziale fondarsi su strutture formali complesse per esprimersi, dimenticandosi che per improvvisatori di tal fatta la complessità formale può tradursi in certi contesti in eccesso di vincoli alla libertà espressiva. Il caso dell’iniziale Blues To Elvin in questo senso è emblematico. Si tratta di un blues canonico di 12 battute preso a tempo inusualmente lento, in cui il pianista inizialmente detta tonalità e relativa scarna struttura accordale, ma senza la presenza di un vero e proprio tema. Eppure Coltrane si lancia in una improvvisazione di una bellezza, di una varietà melodica e soprattutto di una efficacia espressiva che ha pochissimi eguali, anche oltre la sua discografia. Il suo assolo è ciò che talvolta fa dire dell’improvvisazione l’essere il ”racconto di una storia”. D’altronde, che il blues sia una sostanziale faccenda espressiva più che formale non è solo una personale opinione, ma un fatto rilevabile in gran parte della discografia jazzistica. Non a caso un compositore supremo del jazz come Duke Ellington quando descrisse in musica l’epopea del nero-americano nella sua Black Brown & Beige, inserì una sezione intitolata  The Blues costruita su una struttura formale estranea al blues, mantenendone altresì tutti i relativi elementi emotivi/espressivi. Occorrerebbe dunque riflettere sul perché il Duca optò per una così originale e sorprendente scelta compositiva per rappresentare il blues.

Il resto del set proposto prevede poi altri tre brani suonati al sax tenore: Blues to You, Mr. Day e Mr. Knight, alternati a  Blues To Bechet  e Mr Syms, suonati al soprano. Blues To You può essere considerato una sorta di cartone preparatorio in forma ridotta del successivo esteso  Impressions, con Mc Coy Tyner assente e Coltrane che improvvisa a rotta di collo incalzato da Elvin Jones sin dalla prima battuta e dal solido supporto di Steve Davis al contrabbasso, mostrando già tutta la sua forza e la personale innovativa metodologia nell’approccio al sax tenore. Anche nell’ispirato Blues to Bechet, vi è la scelta dell’assenza di Tyner, con Steve Davis protagonista al suo posto. Coltrane evoca a suo modo il capostipite nel jazz del sax soprano, riportato da lui in auge (al di là dello specialista Steve Lacy) col successo planetario di My Favorite Things. L’unico brano del set a possedere un autentico articolato tema è Mr.Syms, un blues in minore con la presenza di un bridge eseguito splendidamente e con grande relax. Mr. Day e Mr. Knight possono essere commentati insieme, non tanto per la similarità dei titoli quanto per la somiglianza negli intenti musicali. Si tratta di due brani nei quali Coltrane sviluppa l’aspetto ipnotico della sua musica, sul quale egli sa come pochi altri condurre improvvisazioni ricche di fantasiose variazioni. In entrambi, si coglie una riuscita sintesi a riferimenti musicali appartenenti a culture “altre”, West-Indian e africane in particolare, specificità che si coglierà sempre più di frequente nelle successive opere. Il primo è un pezzo coinvolgente più veloce e ritmicamente più mosso, mentre il secondo, più lento, ricorda un po’ nell’accenno melodico il tema di India, che verrà inciso l’anno successivo nelle storiche registrazione effettuate nel novembre del 1961 al Village Vanguard di New York.
(Riccardo Facchi)

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