FREE FALL JAZZ

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Si dice sempre, a ragione, di come non sia semplice suonare la musica di Thelonious Monk risultando convincenti e attuali. Da un lato ci sono tutte le peculiarità melodiche e ritmiche che costituiscono il carattere stesso del grande pianista e compositore, dall’altro la necessità di sviluppare un discorso personale a partire da lì, senza che però questo carattere si perda. Negli anni i tentativi sono stati moltissimi, fin dai tempi in cui Monk era ancora in vita – non si contano le versioni dei suoi brani, nè gli album dedicati, vedasi gli esempi di Johnny Griffin e Lockjaw Davis passando per Steve Lacy, Wynton Marsalis, Eric Reed e innumerevoli altri. Adesso arriva il momento di Tim Warfield, grande sassofonista mai troppo lodato dalle nostre parti. (Continua a leggere)

La musica di Stan Getz, gigante del jazz di tutti i tempi, nella splendida versione del trio guidato dal giovane sassofonista di Fondi, Paolo Recchia, esponente della nuova leva jazzistica nazionale, sarà protagonista della serata del Papilio in jazz di giovedì 16 ottobre al Papilio Disco Dinner di La Spezia (via del Canaletto 136).

Il Paolo Recchia Trio, con Enrico Bracco alla chitarra e Nicola Borrelli al contrabbasso, propone brani tratti dal vastissimo repertorio di Getz (quasi 50 anni di carriera tra Stati Uniti, Europa e Brasile) reinterpretati con originalità e colore ed inclusi nel loro ultimo album “Three for Getz” prodotto dalla etichetta giapponese Albóre Jazz. (Continua a leggere)

Dave Douglas è uno dei musicisti più versatili e interessanti dell’ultimo ventennio, ma questo lo sa anche il maiale (come si dice dalle mie parti). Nell’attesa di recensire il suo ultimo, ottimo album in quintetto, vi presentiamo un bel concerto del suo singolare gruppo Brass Ecstasy, fatto solo di strumenti  a fiato (tromba, trombone, corno francese, tuba) con batteria – un omaggio alla grandiosa scuola di New Orleans, ma non solo. In questo concerto, il gruppo omaggia il grande Lester Bowie.


Con ‘The Baddest Monk’ Eric Reed pubblica il suo secondo album dedicato al grande Thelonius Monk, dopo il già ottimo ‘The Dancing Monk’ dello scorso anno. Stavolta Reed assembla un quintetto scegliendo musicisti con cui non ha mai suonato prima (ad esclusione del sassofonista Seamus Blake) e sceglie sette classici del pianista di Rocky Mount, cui sono affiancati due brani originali in qualche modo affini allo spirito del disco. Proprio la riuscita di questi ultimi ci può dare una misura di quanto profondamente Reed si sia calato nella musica di Monk per riesaminarla e riproporla, senza mai suonare come un allievo intimorito o un secchione. Ascoltando la title track, un pezzo per solo piano molto blues, e ‘Monk Beurre Rouge’, che sovrappone con humor beffardo blues e melodie più pop, le concezioni armoniche e ritmiche di Monk, le sue asperità, si avvertono in filigrana dietro alla scrittura e all’esecuzione di Reed. Ed è questa, infatti, la chiave di lettura dell’album: penetrare l’essenza stessa degli originali per rimontarli in veste nuova, fresca, eccitante. (Continua a leggere)

Quando anni fa, scartabellando fra le offerte di un negozio di dischi, trovai ‘For Lady’, fui colpito dalle parole ‘Webster’, ‘Young’ e dalla frase riportata in copertina: “songs Billie Holiday made famous… an instrumental tribute to her great talents”. La mia mente immaginò subito un omaggio realizzato da due pesi massimi della swing era come Lester Young (amico fraterno della Holiday, com’è noto) e Ben Webster. Al primo ascolto distratto del primo brano pensai “ma guarda, c’è pure Miles Davis”, e soprattutto “questo tenore forse è Young, ma non si sente mai Webster!” L’arcano fu presto svelato dopo aver letto meglio la copertina e le note interne: Webster Young era il nome di un trombettista di scuola strettamente davisiana che, nel suo primo album da leader, voleva omaggiare Billie Holiday. L’impronta del Davis di dischi come ‘Blue Haze’ o ‘Quintet/Sextet’ è evidente nel sound asciutto e  ritmato, con un solidissimo contrabbasso in evidenza. La tromba elegante di Webster Young è affiancata dal tenore di Paul Quinichette, capace di emulare lo stile proprio Lester Young come  di utilizzare un fraseggio più ruvido e moderno, un po’ à la Benny Golson – per ovvi motivi, in questo album sfrutta essenzialmente il suo lato “lesteriano”. (Continua a leggere)

E da dove si inizia a parlar di Lester Bowie?
Il trombettista e filicornista bizzarro, ombroso, ghignante, fuori le righe, eppure assolutamente schietto e genuino, senza forzature artificiose da “fottuto genio”, anche perché lui lo era davvero, e se ne fregava, di esserlo. È vero che magari il fatto che sia morto così presto lo avvolge (come nelle migliori banali tradizioni) in una specie di aura mista di rimpianto per un genio incommensurabile, ironico, cialtrone, disincantato, disarmante, e “prematuramente scomparso” (altro classico iconografico per chi, a corto di argomenti, suole mettere paletti definitori attorno all’indefinito). Ma rimangono comunque (e per fortuna!) tutti aggettivi veri e resistenti, e sarebbero valsi pure se fosse vissuto fino a 98 anni con l’arteriosclerosi, le botte di idiozia latente, il balbettio, con la dentiera nel bicchiere, la pelle floscia e l’alito da premorienza. (Continua a leggere)