FREE FALL JAZZ

E da dove si inizia a parlar di Lester Bowie?
Il trombettista e filicornista bizzarro, ombroso, ghignante, fuori le righe, eppure assolutamente schietto e genuino, senza forzature artificiose da “fottuto genio”, anche perché lui lo era davvero, e se ne fregava, di esserlo. È vero che magari il fatto che sia morto così presto lo avvolge (come nelle migliori banali tradizioni) in una specie di aura mista di rimpianto per un genio incommensurabile, ironico, cialtrone, disincantato, disarmante, e “prematuramente scomparso” (altro classico iconografico per chi, a corto di argomenti, suole mettere paletti definitori attorno all’indefinito). Ma rimangono comunque (e per fortuna!) tutti aggettivi veri e resistenti, e sarebbero valsi pure se fosse vissuto fino a 98 anni con l’arteriosclerosi, le botte di idiozia latente, il balbettio, con la dentiera nel bicchiere, la pelle floscia e l’alito da premorienza.

Guardo le sue foto, una tra tutte, quella sulla copertina del suo primo album solista, ‘Fast Last’ del 1974: ricordo l’acquisto glorioso, perso nella incosciente allegria della Notte dei Tempi e degli Acquisti, quell’album non si trova più facilmente (se non in vinile come il mio, in cd è stato ristampato doppio come ‘American Gumbo’, che somma ‘Fast Last’ e ‘Rope A Drope’ del 1975, e si trova la copertina di quello. Per intenderci, quello con Lester col cappello da cuoco). Nella foto che invece dico io, sul vinile originale, Lester è di profilo, bellissimo, con gli occhialetti scesi sul naso, una barba che diventa gradatamente evanescente, geometrica e meravigliosa, e quel profilo così netto eppur sfumato, coi suoi occhi semi socchiusi e persi in chissà quale pensiero o sogno o gioco di parole (adorava i giochi di parole, Lester).

‘Fast Last’ è un album graffiante (stranamente poco citato, ma che annovera una formazione di tutto rispetto, da Hicks al piano, Mc Bee ben più che valente ai bassi, al sax tenore Stubblefield, altro dal curriculum niente affatto disprezzabile, ma sconosciuto ai più), punteggiato di eclettiche incertezze, di instabilità  principesche, quasi sacrali, ricamato da mutamenti di rotta, magiche voragini e buchi neri, di melanconie alternate con toni qua e là volutamente grotteschi e con soavità frizzanti, una  specie di disegno abbozzato eppur perfetto, un chiaroscuro mezzo appallottolato e buttato su una sedia accanto alla finestra. ‘Lonely woman’ non soffre di forse immaginabili timori riverenziali verso il Maestro Ornette ed è  eseguita (principalmente dal sax alto di Julius Hemphill, che va annoverato a pieno titolo tra gli “ingiustamente non considerati”) riversandoci sopra un cocktail sonoro di innocenza e delicatezza, col contrappunto di improvvisi strappi potenti, quasi come se le note venissero fuori con la forza del pensiero e le si lasciasse andare per la loro strada, benedicendole nel nome del Maestro.

Estemporanei piaceri di vario genere e numero avvolgono all’ascolto delle successive, da ‘Banana Whistle’, coacervo di fiati sopraffini e frutto della mente meravigliosamente scombinata di Hemphill (autore pure al 50% della title track) che strizza un occhio beffardo a sonorità telefilmesche per poi lanciarsi in navigazioni ardimentose e approdi inaspettati, e che dire di una ‘Hello Dolly’ à la Lester (pezzo che in teoria farebbe storcere il naso a molti, considerando la somministrazione in una serie infinita di salse mainstream, cinematografiche e non), ma che invece acquista una freschezza impensabilmente nuova; la title track è un divertissement corale di 12 minuti ricco di spunti ariosi (evviva il piano scosceso di Hicks e il filicorno meraviglioso di Lester e dosi massicce di sax senza rete di protezione!), e con un finale volutamente spezzato dopo assoli di uno dei tre batteristi che si alternano nell’album, Phil Wilson, come una spina tolta di botto e via. Si chiude con l’ultimo pezzo, ‘Troop Rides Again’, in cui i tre batteristi si rilanciano battute come in un duello cavalleresco o un gioco enigmistico, per poi lasciare spazio a Lester e alla sua tromba in una sorta di marcetta militare (dato il titolo dell’adunata di corsa), ed è proprio il trio di batteristi che chiama all’adunata e via con l’alternarsi a scacchiera di ritmica percossa e soffiata crescente di botte e risposte tumultuose quasi parossistiche, con il suono quasi umano della tromba e fino al placarsi del fiato e al ritorno delle tre batterie rallentate sfumate in metaforica lontananza. (Dinahrose)

Comments are closed.