Con ‘The Baddest Monk’ Eric Reed pubblica il suo secondo album dedicato al grande Thelonius Monk, dopo il già ottimo ‘The Dancing Monk’ dello scorso anno. Stavolta Reed assembla un quintetto scegliendo musicisti con cui non ha mai suonato prima (ad esclusione del sassofonista Seamus Blake) e sceglie sette classici del pianista di Rocky Mount, cui sono affiancati due brani originali in qualche modo affini allo spirito del disco. Proprio la riuscita di questi ultimi ci può dare una misura di quanto profondamente Reed si sia calato nella musica di Monk per riesaminarla e riproporla, senza mai suonare come un allievo intimorito o un secchione. Ascoltando la title track, un pezzo per solo piano molto blues, e ‘Monk Beurre Rouge’, che sovrappone con humor beffardo blues e melodie più pop, le concezioni armoniche e ritmiche di Monk, le sue asperità, si avvertono in filigrana dietro alla scrittura e all’esecuzione di Reed. Ed è questa, infatti, la chiave di lettura dell’album: penetrare l’essenza stessa degli originali per rimontarli in veste nuova, fresca, eccitante. Come l’iniziale ‘Rhytm-A-Ning’, che il quintetto al completo vira in chiave funk, aggiungendo Horace Silver alla ricetta. ‘Monk’s Mood’ assume inediti connotati cubani e un groove incredibile. Proseguendo, pezzi arcinoti come ‘Epistrophy’ e ‘Green Chimneys’ vengono abilmente smontati e riarmonizzati: nella prima si fa notare il bel gioco fra la splendida tromba di Etienne Charles che esegue frasi ricche di note staccate con Reed impegnato in un complesso movimento ritmico di contrasto, nella seconda (in trio) emergono ritmi africani a fianco di più classiche inflessioni hard bop. Il cantante Jose James si fa valere in un’appassionata ‘Round Midnight’ dai toni quasi confessionali.

Eric Reed si conferma musicista di grande valore e intelligenza, capace di affrontare una delle figure cardine del continuum jazzistico con riletture che brillano di vita propria e allo stesso tempo non ne tradiscono lo spirito. Ce ne fossero!
(Negrodeath)

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