FREE FALL JAZZ

Archive for " gennaio, 2015 "


Ho avuto modo in questi giorni, dopo più di un decennio che non lo facevo, di leggere diverse classifiche jazz di fine anno, tra quelle fruibili in rete e quelle ufficiali su riviste specializzate e mi sono accorto che in questo lungo lasso di tempo in realtà è cambiato poco o nulla nel modo di stilarle, continuando quindi ad averle in uggia come in passato. (Continua a leggere)

L’album di ballad, al giorno d’oggi, sembra quasi una reliquia. Non per Dayna Stephens, eccellente sassofonista che ha già dimostrato il suo valore sui tempi medio-lenti, in cui brillano la grande attenzione a suono e volume e il notevole uso di glissando e vibrato. La melodia, in qualunque forma, resta la linea guida delle sue liriche esplorazioni, dove si dimostra attento discepolo di Wayne Shorter, Branford Marsalis, Ben Webster e Dexter Gordon. Tutte caratteristiche ben presenti nella sua discografia passata ed esaltate più che mai in ‘Peace’, dove lo accompagna una vera e propria formazione all-star: Brad Meldhau (piano), Julian Lage (chitarra), Larry Grenadier (contrabbasso) ed Eric Harland (batteria), alle prese con una selezione di temi tutt’altro che scontata. (Continua a leggere)

Il metal è un universo musicale vastissimo che molto raramente, anzi, mai, ha contatti con quello del jazz. Ogni tanto i media metallici (soprattutto italiani) amano infilare “influenza jazz”, o “influenza jazz-fusion” quando sentono un basso slappato e un batteria che va avanti di piatto e bordo rullante, ma poi finisce lì – un tentativo, pretestuoso e del tutto non necessario, di nobilitazione per interposta persona. (Continua a leggere)

George Burton è un giovane pianista americano con un buon curriculum da sideman (Wallace Rooney, Jack Walrath e Odean Pope fra i tanti) e un album da leader di prossima uscita. Attualmente, Burton si divide fra due quintetti, uno più mainstream e uno più vicino allo stile di Christian Scott; entrambi sembrano molto interessanti. Noi vi proponiamo un sostanzioso estratto dal vivo del primo, colto fra le accoglienti pareti dello Smalls, con una frontline da urlo composta da Terrell Stafford e Tim Warfield.


In un periodo dominato in ambito di musiche improvvisate da un termine abbastanza improprio e abusato come quello di “contaminazioni”, utilizzato per specificare, in modo peraltro approssimativo, l’attuale tendenza del jazz verso una commistione di generi diversi, ecco un musicista che davvero riesce a raggiungere in un tale ambito risultati musicalmente interessanti, senza mostrare pretenziosi e velleitari ”evoluzionismi”, o forzature di sorta, agendo con assoluta proprietà dei linguaggi di cui dispone e che, d’altra parte, quasi certamente risulterà misconosciuto alla gran parte dei jazzofili nostrani, per lo più presi oggi da superficiali eclettismi e proposte pseudo-jazzistiche, sempre più distanti dal contesto linguistico di riferimento, soprattutto sul piano ritmico. (Continua a leggere)

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