FREE FALL JAZZ


Se esistesse un videogioco sul sassofono, James Carter sarebbe probabilmente il boss dell’ultimo livello. Sorta di Illinois Jacquet filtrato da Rashaan Roland Kirk, questo musicista controverso e sui generis è uno dei grandi irregolari del jazz odierno, tanto eclettico quanto di fatto inclassificabile. Il suo attaccamento alle radici blues, gospel, soul e rhythm’n'blues è fortissimo, e pervade in un modo o nell’altro tutta la sua opera, tesa a omaggiare, rielaborare e rinvigorire il grande continuum della musica nera mettendone in scena, di volta in volta, un particolare aspetto – tutti gli altri ne diventano subordinati ma sono sempre presenti, in una prassi della convivenza di svariate epoche jazzistiche solo apparentemente postmoderna. Carter ama infatti la citazione, il grottesco e l’ironia, ma non il distacco e la manipolazione cinica. Quest’anno sono usciti ben due album, stilisticamente e concettualmente agli antipodi, che ribadiscono ancora una volta lo sconfinato talento di questo geniale, sorridente gigante.


CARIBBEAN RHAPSODY

Nel 2000 il compositore portoricano Roberto Sierra, sbalordito dalle capacità di Carter, compone un concerto per lui. La prima avviene a Detroit nel 2002, seguita da altre esecuzioni in America, mentre la registrazione su disco arriva solo quest’anno. Le contaminazioni fra musica classica e jazz hanno portato spesso a risultati goffi: vengono in mente poche eccezioni a firma di Duke Ellington, John Lewis, Wynton Marsalis, Terence Blanchard e Ornette Coleman. E sembra che  pure la partnership Sierra-Carter possa essere aggiunta all’elenco. Il Concerto per Sassofono e Orchestra di Sierra, nella classica forma tripartita, è infatti un bellissimo esempio di musica contemporanea. La partitura si inserisce nelle linee tracciate da Stravinskij, Copland e Bernstein, con un gusto per le sonorità caraibiche e i ritmi latini che richiama Louis Moreau Gottschalk – e dunque musica contemporanea, sì, ma vibrante, melodica, ritmata ed incisiva, fortemente caratterizzata in senso etnico senza mai sconfinare nella paccottiglia turistica. Il ritmo oscilla fra jazz e latino in maniera fluida, e Carter si trova sempre a suo agio, con una pronuncia strumentale che media classicità e blues: al tenore nel primo movimento, ‘Ritmico’, un complesso tour de force su impervi ritmi latini dalla vigorosa accentazione; al soprano nella delicatezza dell’Adagio, basato un motivo languido e crepuscolare che si ripete con variazioni per tutta la durata del movimento; e di nuovo al tenore nell’esplosivo Scherzo finale, dove un’elusiva prima metà costruisce attentamente la tensione che poi esplode nella seconda, una trascinante sarabanda di colori orchestrali a tempo di latin jazz. La ‘Caribbean Rhapsody’ che dà il titolo al disco è una composizione da camera scritta quest’anno, e vede schierati James, sua cugina Regina al violino solista, e un particolare quintetto d’archi (i soliti due violini, viola, violoncello più contrabbasso pizzicato, indispensabile per la spinta latineggiante e jazz). I ritmi di diversi balli e musiche tipiche dei Caraibi fluiscono in una bellissima e variopinta fantasia, dove i cugini Carter duellano in bellissimi assoli improvvisati. Completano il disco due brevi interludi per solo sax, uno al soprano e uno al tenore, di coerenza e incisività degne del miglior Sonny Rollins. Difficile non rimanere impressionati dalla perfetta integrazione fra linguaggi musicali differenti, aiutata dalla passione di Sierra per jazz e musica latina e dalla brillantezza con cui Carter riesce a improvvisare in un simile contesto.


AT THE CROSSROADS

Dall’altra parte dello spettro musicale troviamo ‘At The Crossroads’, l’ultima fatica di quel fenomenale trio con cui James Carter ha ridisegnato da solo la fisionomia del soul jazz, portandolo a nuova vita. Il trio sax-organo-batteria è, spesso, sinonimo del jazz più popolano e notturno, da bettola di provincia, dove una musica greve e sensuale accompagna la veloce soddisfazione dei piaceri carnali. Inspiegabilmente, certa critica ha preso queste caratteristiche come difetti da contrapporre a musica più “colta” e “intellettuale” che dovrebbe “elevare”. Non James Carter, che una volta di più ci dimostra la grandezza, tecnica ed espressiva, della musica più rootsy e in teoria primitiva. ‘At The Crossroads’ è un album intriso fino al midollo del blues più viscerale, tanto nel repertorio quanto nell’esecuzione, ma è fresco, moderno, contemporaneo in ogni suo aspetto. ‘Oh Gee’, blues swingante con Bruce Edwards alla chitarra, dovrebbe mettere subito in chiaro cosa troveremo nel resto del disco: musica fisica e carnale ma anche sofisticata e intelligente, come dimostrano le ampie escursioni del tenore, i crepitanti riff di chitarra e l’impareggiabile groove di Gerald Gibbs e Leonard King. ‘The Walking Blues’, ospite la splendida voce brunita di Miche Braden, è un veloce rhythm’n'blues che rispolvera l’arsenale di Louis Jordan fatto di riff a presa rapida, ritmi incalzanti, virtuosismo e tanto humor; dopo l’intervento della Braden, Carter al baritono entra con la potenza di una vaporiera e si lancia in un solo tipico dei suoi, che ribalta la prospettiva sul free jazz, riassorbendone le esplosioni rumoriste all’interno dell’originario honkin’ rhythm’n'blues. La Braden torna pure in ‘Ramblin’ Blues’, dove compaiono pure tromba (Keyon Harrold) e trombone (Vincent Chandler) per una performance mid tempo da manuale, e in ‘Tis The Old Sheep Of Zion’, splendido gospel; segue ‘Come Sunday’, cantata a sorpresa da Leonard King per un terzo e completata da Carter che rievoca il contralto cremoso di Johnny Hodges e lo spirito di Duke Ellington. E poi… beh, c’è molto altro di cui gioire. Da ‘Walkin’ The Dog’, che unisce la sacralità gospel dell’organo alla torrenziale fisicità del sax, alla complessa ‘The Hard Blues’ che guarda tutti i possibili significati del termine “blues” attraverso un caleidoscopio, alla rilassata ‘Aged Pain’ dove il baritono vola con una leggerezza tale da far impallidire Gerry Mulligan. E ‘Lettuce Toss Yo’ Salad’, che idealmente unisce la musica da club di un tempo (rhytm’n'blues, soul jazz) e quella odierna, dove il funk si astrae e si assottiglia e il fraseggio del sax arriva gradualmente alla replica dello scratch di un turntable? Imperdibile, pochi discorsi. Un disco per ricongiungersi con l’essenza stessa del jazz e della musica negramericana più bella ed esaltante.

Conclusioni
E dopo questa pappardella volete anche delle conclusioni? Ma chi sono io, Babbo Natale? No, l’unica conclusione possibile è riconoscere il genio di quest’uomo. Sarò di parte, ma ho pure ragione, e se non siete d’accordo non è un mio problema. Scherzi a parte ma non troppo, entrambi i dischi sono fra le uscite più belle e significative del 2011.
(Negrodeath)

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