FREE FALL JAZZ

Negli ultimi anni e dopo decenni di ascolto, ho avuto modo di approfondire le conoscenze jazzistiche (e non solo) anche verso opere di una molteplicità di grandi musicisti (compositori e/o improvvisatori che dir si voglia) generalmente considerati “minori” rispetto ai riconosciuti giganti del jazz, rendendomi conto di quale abbondanza di arte musicale si è sciaguratamente trascurata, sia dal punto di vista del materiale compositivo, che da quello improvvisativo, in nome di un non meglio specificato processo di innovazione, così rapidamente evolutosi nel tempo. Mentre infatti la musica colta europea si è evoluta lentamente nei secoli, il jazz pare aver avuto un analogo sviluppo nel giro di un solo secolo, per una molteplicità di cause non analizzabili seriamente in questa sede.

Il jazz in questi decenni è stato perciò raccontato non come fenomeno dovuto ad una pluralità di contributi qual è ed è stato, ma come musica prodotta da poche grandi figure innovative e per sedicenti “rivoluzioni”, proiettanti verso un progresso musicale annichilente del passato e della sua storia, riducendolo ad una musica fatta in sostanza da mode del momento e dalla stringente attualità.

Non c’è oggi recensione nostrana rintracciabile in rete che non si eserciti a citare, talvolta a capocchia, Miles Davis o John Coltrane (trovare citazioni di colonne portanti come Ellington, Parker, Gillespie, o Mingus già comporta un’ampiezza di conoscenze jazzistiche mediamente fuori portata, per non parlare di jazzisti delle epoche precedenti, ormai pressoché dimenticati), o che non esalti il “fenomeno” musicale del momento, magari sulla bocca di tutti, così da apparire sempre molto informati e aggiornati in materia. Sicché, ad esempio, non si sa, né importa, riconoscere i tratti distintivi del pianismo di un Tommy Flanagan o di un Hank Jones, o quelli del sassofonismo di un George Coleman o di un Joe Farrell, catalogando tutto comodamente nel calderone di generiche etichette come “mainstream americano” che aiutano solo ad evitare faticosi approfondimenti e a non rispettare le identità artistiche dei singoli musicisti.

Il jazz sembrerebbe dunque una musica sempre proiettata in avanti, priva di una memoria storica e di radici cui attingere, colto da ansia di modernità e di progresso continuo, per non degradare in una musica ormai creativamente sterile e risaputa. Il jazzofilo di turno non ha perciò alcuna necessità di conoscenza pregressa, adeguandosi solo ai “ritmi” imposti dall’attualità musicale, per non risultare un conservatore, un reazionario nostalgico e poco “trendy”.

Fortunatamente tutto questo viene smentito da una scena musicale americana che, per quanto ci si sforzi nel nostro paese di minimizzare e celare concertisticamente a favore di una riproposizione iper-inflazionata di nomi per lo più ormai creativamente spenti, è oggi estremamente varia e ricca di giovani virgulti che riscoprono e rileggono in modo estremamente aggiornato pagine di grandi musicisti americani e afro-americani in particolare, che rischiano di essere dimenticate o cadere nell’oblio, a fronte di un sedicente “progressismo jazzistico” che, per come concepito e raccontato, sembra stare solo nella testa di chi lo predica.

In un periodo nel quale si fa, non a caso, una gran confusione nelle proposte e nell’uso dei termini “jazz” e “contaminazione” in ambito di musiche improvvisate, musicisti come Miguel Zenon, Avishai Cohen, Stefon Harris, David Sanchez, Warren Wolf, Sean Jones, Ed Simon, Robin Eubanks, Antonio Hart, Mark Turner, Logan Richardson, Christian Scott, Marquis Hill, Tia Fuller, Luis Perdomo, Arturo O’Farrill, Conrad Herwig, Ben Williams, Gerald Clayton, Robert Glasper, Jason Moran, Walter Smith III, Russell Gunn, Kamasi Washington e tanti altri ancora sulla scena internazionale, rimembrano nelle loro proposte e in modo quanto mai opportuno le loro radici, l’intreccio di dialetti musicali e delle relative culture, le grandi figure musicali che hanno prodotto una vasta messe di materiale compositivo ancora oggi non pienamente messo in luce. Non si tratta di bieco conservatorismo o semplice reazionario “revival” dei bei tempi che furono, anche se fa comodo lasciarlo intendere, ma al più dell’utilizzo di un repertorio, allargato anche oltre il ristretto bacino jazzistico, per costruire una musica rinnovata e aggiornata, ma sempre collegata alle sue profonde radici storiche.

E’ indubbio che Wynton Marsalis sia stato il primo a pensare al jazz in termini di repertorio da presentare con una fantasia sempre rispettosa della pronuncia originaria, ma lo ha fatto con spirito fortemente identitario, molto più conservatore e “purista” di quanto facciano i musicisti citati, che operano con spirito decisamente più apèrto e moderno, affrontando repertori meno praticati e più vicini temporalmente. Gruppi come Next Collective o SFJazz Collective sono esemplari in tal senso. In particolare quest’ultimo possiede già una vasta discografia che affronta in tali termini il repertorio di Ornette Coleman (2004), John Coltrane (2005), Herbie Hancock (2006), Thelonious Monk (2007), Wayne Shorter (2008), McCoy Tyner (2009), Horace Silver (2010), recentemente Chick Corea e Joe Henderson, ma anche Stevie Wonder e prossimamente pure Michael Jackson, mentre il primo riesce addirittura a spaziare in ambiti ben oltre il Jazz e la Black Music (Hip-hop, punk-funk, guitar-pop, electro-R&B, alternate-rock, Pearl Jam, D’Angelo, Jay Z and Kanye West,Meshell Ndegeocello etc.).

Siamo dunque sicuri che Il futuro del jazz è delle musiche improvvisate sia ormai oltre l’America e la sua storia musicale? Io non credo, direbbe l’On Razzi…
(Riccardo Facchi)

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