FREE FALL JAZZ

William Parker pubblica dischi a getto continuo, al punto che a volte si finisce per perderne qualcuno per la strada. Vista la qualità mediamente alta della sua opera è certamente un peccato, ma lo è ancora di più quando il contrabbassista newyorkese devia dai suoi binari abituali e apre un nuovo capitolo, facendo per di più centro completo. L’intento di ‘Uncle Joe’s Spirit House’ è quello di celebrare la vita di zio Joe e zia Carrie, che con il duro lavoro e la generosità furono di grande ispirazione al piccolo William; per farlo, ecco un gran bel disco di puro soul jazz, quello che fioriva negli anni della gioventù degli amati zii. Sono della partita tre fidi comprimari come il tenore Darryl Foster, l’organista (in questo caso) Cooper-Moore e il batterista Gerald Cleaver, alle prese con nove brani originali scritti dal leader. E Parker dimostra di amare e conoscere alla perfezione pure questo stile così ‘gritty’ ed ‘earthy’, che ancora attende una doverosa rivalutazione critica. Il suono del quartetto è modellato abilmente su quello dei bei dischi Blue Note di Stanley Turrentine con Shirley Scott, sui ‘Cookbook’ di Lockjaw Davis, sulle collaborazioni fra Jack McDuff e Roland Kirk, finanche sull’opera del sottovalutato Larry Young: groove robusti che procedono instancabili e accumulano energia, un sax virile e rotondo, cascate di organo, melodie solari intrise di blues, funk e gospel. Che si tratti di musicisti contemporanei è evidente dalla disinvolta capacità di suonare ‘in’ e ‘out’ senza soluzione di continuità – particolarmente evidente, poi, nel caso di Darryl Foster, una specie di James Carter meno istrionico. Il clima generale è ottimista, positivo, e ogni brano scorre nell’altro con naturalezza, dal soul della roboante title track alla bossanova di ‘Ennio’s Tune’, dal maestoso gospel di ‘Let’s Go Down To The River’ al guizzante funk ‘Jacques’ Groove’. Sarebbe facile accusare Parker di revivalismo, ma la sola qualità del disco è più che sufficiente a zittire simili chiacchiere.

Non siamo ai livelli dell’Organ Trio di James Carter, probabilmente, ma con questo disco William Parker è riuscito a rinfrescare uno dei generi più autentici e sanguigni, popolari nel senso positivo del termine, alla base del jazz moderno. Speriamo che ci siano dei seguiti!
(Negrodeath)

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