FREE FALL JAZZ

Autrice di due irresistibili album negli anni ’90 (il primo in compagnia del grande trombonista Fred Wesley, di scuola James Brown/George Clinton), la Greyboy Allstars nacque su input di (appunto) DJ Greyboy, un bravo ragazzo innamorato del funk e del soul che quando metteva i dischi nei locali della bay area faceva tremare le pareti a botte di bassi pulsanti. Una volta assemblata la formazione, egli produsse il primo album e si limitò a sporadiche collaborazioni negli episodi successivi (tra cui l’ottimo ritorno ‘What Happened To Television?’, arrivato nel 2007 dopo ben dieci anni di pausa), lasciando il gruppo libero di camminare sulle proprie gambe con un sound dal tiro micidiale, che si abbeverava  soprattutto a jazz funk e soul jazz. E da soli ancora oggi camminano benissimo, d’altronde si tratta di musicisti dalla comprovata esperienza: il sax di Karl Denson (che presta anche la voce, negli sporadici momenti cantati) tira la carretta, coadiuvato da altri ottimi figuri quali il chitarrista/cantante Michael Andrews (proprio quello dell’odiosa cover dei Tears For Fears nella colonna sonora di Donnie Darko. Qui però si “copre” con lo pseudonimo Elgin Park) e il tastierista Robert Walter (con una lista di referenze che va da Gary Bartz a Skerik dei Critters Buggin); completano la formazione il bassista Chris Stillwell e il nuovo batterista Aaron Redfield, che in realtà, a sentire certi ritmi quando pestano duro, sembrano suonare insieme da sempre.

‘Inland Emperor’ arriva a distanza di “soli” sei anni dal predecessore e inizialmente lascia anche un po’ spiazzati. Certo, impossibile star fermi ascoltando ‘Bomb Pop’ o ‘Multiplier’, pezzi che riprendono una volta di più il canovaccio già ampiamente collaudato. Assimilare il resto richiederà forse qualche ulteriore giro di giostra, ma il piccolo sforzo sarà ampiamente ripagato, perché ‘Breaking Blood’, ‘Bitch Inside Me’ e ‘Old Crow’ sono tre escursioni (tutte cantate) nel soul e nel funk più arroventati degli anni ’60 e ’70; perché ‘Diminishing  Blackness’ è un oscuro e dilatato tour de force di 7 minuti con un organo rimanda alla stagione di Zombies e Doors; perché le influenze psichedeliche in realtà arrivano sin dall’apertura con ‘Profundo Grosso’ (titolo dell’anno), e in questo caso lasciano intravedere un’anima rock che viene poi fuori in tutto il suo fragore nella conclusiva ‘Trashtruck’, la quale, giuro, sembra una specie di inconsapevole variazione sul tema della sigla dei Munsters (in particolare della cover che ne fecero i dimenticati White Pigs), con chitarra, sax e organo che costruiscono un muro del suono impressionante.

La Greyboy Allstars dunque rilancia, e noi entusiasti li guardiamo vincere la posta in gioco. Oggi a portare avanti suoni dal groove così radicato negli anni ’70 senza suonare come semplice calligrafia non sono poi molti, e allora ben venga. (Nico Toscani)

 

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