Tornare a Saalfelden dopo quasi 30 anni, dove al posto del tendone poggiato su un prato, memore di antiche edizioni di Umbria Jazz “free”, trovi una sala congressi con annessa sala VIP e un locale adatto ad ascoltare musica, beh, non poteva che far piacere. Certo, nonostante l’ottima organizzazione di uno staff giovane e sempre interessato alle nuove proposte della scena, soprattutto nuovaiorchese, qualche problema resta sempre da risolvere, come la disponibilità delle sedie nella CongressHalle, ma alla fine risultano intoppi marginali.
La musica dunque. Si parte giovedì 23: lasciando perdere le proposte del Citystage, un tendone (ah, eccolo!) nella piazza principale, sia per la mancanza di interesse verso le stesse sia per mancanza di tempo, si parte dal Nexus, dove si presentano gli Shortcuts. Il Nexus è un piccolo teatro con balconata, annesso ad un delizioso e funzionale bar-ristorante molto accogliente, da qui parte il vero Jazz Festival giunto ormai alla sua 33° edizione. La proposta di apertura, coraggiosa, è il quartetto di Christian Muthspiel con guest Steve Swallow. L’idea di coniugare la musica del rinascimento con il jazz non è proprio nuova, anche se sviluppata per portare una improvvisazione dai colori free. Un progetto che, nonostante la presenza di Swallow e soprattutto di Tortillier al vibrafono, resta piuttosto freddo e distaccato dalla comunicazione con il pubblico. La seconda proposta, gli Steamboat Switzerland, è stata devastante dal punto di vista della potenza di suono: un organo, un basso elettrico e una batteria; per quelli che come me erano in prima fila, un impatto devastante. Qui il jazz e l’improvvisazione non c’entrano niente: un trio che si rifà a tanto rock progressivo anni ’70 senza sviluppare assolutamente niente, tutta la musica era scritta, il che fa pensare… Notevoli i pantaloni a zampa d’elefante del tastierista, che mi hanno fatto ricordare il gruppo glam rock degli Slade!
Venerdì iniziano i tour de force: primo concerto alle 12.30, Nexus, con il progetto di Aki Takase, Kanon, pianista insieme a Kazuisha Uchihashi alla chitarra e Axel Dörner alla tromba. La Takase dopo aver reinterpretato, ma lo vedremo anche dopo, classici del Jazz come Waller, Ellington, ecc, si presenta con questo progetto dedicato all’improvvisazione. Nonostante le aspettative, è risultato molto incompleto, deludendo molti dei suoi ammiratori, tra cui il sottoscritto: è mancato l’interplay tra le parti, e forse se il progetto si fosse sviluppato in duo con la tromba o con la chitarra avrebbe potuto giovare all’ascolto. La seconda proposta, sempre al Nexus, è il Red Trio con John Butcher al soprano e al tenore. Si tratta di un gruppo di giovani improvvisatori di Lisbona, composto da Rodrigo Pinheriro (piano), Hernani Faustino (basso) e Gabriel Ferrandini (batteria), della squadra Clean Feed, etichetta portoghese. La musica del trio più il solismo di Butcher crea una massa sonora esplosiva, radicale certo, ma costruttiva. Una proposta da tenere d’occhio, soprattutto per la gioventù del trio.
E passiamo alla CongressHalle, dove si svolgono i concerti importanti, il Mainstage. Come intuibile dal nome, è una sala congressi adattata, ma dotata di ottima acustica, all’interno di un palazzo accogliente e munito di ottima sala stampa. Si inzia con il trio di Martin Philadelphy, con il nostro alla voce e chitarra, Jamie Saft alle tastiere e Gustavo Costa alle percussioni. Martin è una sorta di cantautore, invitato forse proprio in quanto austriaco, che si avvalso dell’appoggio di quel geniaccio “talebano” di Jamie Saft. Il risultato è stato davvero imbarazzante: l’apertura di uno dei festival europei più importanti con una proposta a metà strada tra il rock prog e la canzone ballabile ha dato un’impressione negativa. Nonostante le uscite di Jamie Saft, che con le sue tastiere, citando classici ecc, ha riempito la pochezza del solismo alla chitarra di Martin, tipo un “Santana de noantri”. Per fortuna la ripresa c’è stata subito dopo con il trio Side A, con Ken Vandermark (tenore e clarino), Hävard Willk (piano) e Chad Taylor (batteria). Pochi come Vandermark hanno saputo rinnovare il linguaggio del free jazz, e qui a Saalfelden se ne è avuta, anche se forse non c’era bisogno, la riconferma, coadiuvato ottimamente da un preciso e puntuale Willik, a mio parere uno dei migliori pianisti in circolazione, e, finalmente, da un Chad Taylor non semplice accompagnatore.
Stiamo salendo di tono, e infatti con il quartetto di Henry Texier, si raggiungono vette intensissime del cosiddetto post bop classico. Insieme al figlio Sebastien, clarino e tenore, Francois Corneloup al baritono e Louis Moulin alla batteria, il quartetto propone un jazz pulito, per niente datato, anche se le citazioni nel caso di duetti tra clarino e baritono, ricordano l’Africa Brass di Coltrane, fresche e piacevoli all’ascolto. La cavata di Henry è ancora valida e il suo apporto sempre puntuale; menzione particolare al brano dedicato a Paul Motian che ha fatto commuovere i numerosi spettatori. Certo poi che vederlo con Humair e Portal… Si chiude la nottata con Les Rhinocéros, un quartetto americano composto da Michael Coltun (basso elettrico), Amit Peled (chitarra elettrica), David Coultun (violino) e Jonathan Burrier (batteria). Sinceramente, causa stanchezza, il concerto l’ho visto sul maxischermo della sala VIP; già dalla formazione intuivo una proposta non interessante ma certe volte le intuizioni si smentiscono. Nonostante citazioni musicali già note (la intro del primo pezzo era simile a ‘Luglio Agosto Settembre Nero’ degli Area, a conferma di quanto questi ultimi fossero avanti!), la loro proposta di smantellare vari tipi di generi è parsa più che dignitosa.
Di Jenny Scheinmann conoscevo poco. Il quartetto da lei presentato è, però, molto stimolante: oltre alla Scheinmann al violino, troviamo Nels Cline alla chitarra, Todd Sickafoose al basso e Jim Black alla batteria. La musica proposta è una sorta di country jazzato con un poderoso apporto, anche troppo, di Black: simpatica, niente di più. E ci avviciniamo al clou della serata, ma anche del festival, l’Experimental Band di Muhal Richard Abrams. Ho avuto la fortuna di assistere al sound check e vedere tutti insieme questi meravigliosi protagonisti della scena free della prima ora, ed è stato uno sballo notevole. L’ultima volta che hanno suonato assieme è stato a Verona circa 20 anni fa, con anche l’aggiunta di Braxton, e qui a Saalfelden non ci poteva aspettare un progetto vero e proprio (anche se una traccia di intenzione c’era), ma sviluppi solistici che hanno dimostrato come questi “ragazzacci” siano ancora capaci di dire la loro. La cosa più notevole? Un assolo di Roscoe Mitchell. Henry Threadgill, Wadada, George Lewis, Roscoe, Amina Claudine Myers, Leonard Jones, Thurman Baker, Reggie Nicholson e naturalmente Muhal: fuori gara per la palma d’oro, questo era un concerto storico! Il set seguente è dei Klima Kalima, trio finlandese con Kalle Kalima alla chitarra, Oliver Potratz al basso e Oliver Steidle alla batteria, che hanno presentato un momento più easy, una fusion rilassante: ci voleva. E chiudiamo la nottata, è già l’una, con il nuovo progetto di Aki Takase, New Blues Project, che segue le orme del precedente lavoro su Fats Waller, ma dal quale non eredita la spontaneità e freschezza: un’altra delusione per me. Grande, al solito, Eugene Chadbourne, impegnato con chitarra e voce; buono l’apporto di Rudl Mahall al clarino, Nils Wogram al trombone e Paul Lovens alla batteria, mentre la pianista, forse a causa dell’ora tarda, non sembrava in ottima forma.
Siamo alla fine: questa 33° edizione del Jazz Festival di Saalfelden si conclude con il faraone, Pharoah & The Chicago And Sao Paulo Underground. Qui si riunivano tutti: Rob Mazurek con il Sao Paulo, già autori di un ottimo concerto a Venezia, Pharoah Sanders dopo un buonissimo Udin&Jazz, e i due chicagoani Lux e Taylor. Musicalmente non c’è niente di nuovo: le musiche ricalcano quelle del Sao Paulo Underground, ma sono molto più coinvolgenti, vista la presenza di un basso e una batteria. Quello che colpisce è la voce ancora possente, soprattutto all’inizio, di Pharoah. È una festa gioiosa e coinvolgente che “prende” tutto il pubblico e dimostra che Rob è sicuramente l’uomo nuovo del jazz di questo millennio ed anche un piccolo Re Mida: tutto quel che tocca diventa oro. Al prossimo anno, si spera…
P.S.: volevate sapere chi ha vinto la palma d’oro? Diciamo che non l’ha vinta né Aki Takase né Martin Philadelphy…
(Mau)
Le gallerie fotografiche dei quattro giorni del festival sono disponibili ai seguenti link:
http://www.flickr.com/photos/mau1961/sets/72157631335620858/show/ (Giovedì)
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