Solo basandomi su questi e prima di entrare in considerazioni di dettaglio, occorre innanzitutto evidenziare che si è realizzato un ottimo riscontro di pubblico, mentre sul piano musicale l’impressione è stata quella di un risultato mediamente sotto le aspettative. Sono emerse, almeno a parere di chi scrive, alcune considerazioni comuni a tutte le esibizioni, di cui la più importante si riferisce a una carente qualità compositiva e progettuale riscontrata, intesa in termini di spessore musicale e originalità, non all’altezza della preparazione musicale mostrata dai diversi attori ascoltati. In verità, pare essere questa una pecca generalizzabile all’odierna scena della musica improvvisata, che sembra sì sfornare ancora ottimi improvvisatori, ma molto meno delle forti leadership e, a maggior ragione, dei compositori di talento in grado di produrre una scrittura all’altezza della storica tradizione del jazz e dalla canzone popolare americana, ambiti dai quali comprensibilmente e non a caso si attinge ancora largamente.
L’altra considerazione, per certi versi piacevolmente positiva, è relativa al constatare come la cosiddetta “black music”, ben rappresentata in questa edizione del festival dal funk “verace” e sufficientemente fresco proposto da Maceo Parker, sia ancora oggi in grado di coinvolgere un pubblico giovane inaspettatamente numeroso, in grado cioè di generare quell’indispensabile ricambio generazionale di una abituale platea concertistica del jazz ad ogni edizione sempre più attempata. Un elemento questo che dovrebbe essere preso attentamente in considerazione dagli organizzatori anche per le future edizioni del festival, riuscendo comunque a mantenere un buon livello qualitativo delle proposte.
Il concerto domenicale mattutino del duo “Brockowitz” composto dal pianista Phil Markowitz e il violinista Zach Brock, dopo una buona partenza su un tradizionale americano è scaduto nel deja vu di una musica da camera (peraltro più scritta che improvvisata) dominata dall’impronta armonica impressionista imposta dal pianista, che ha parzialmente inibito la vena improvvisativa del quarantenne talentuoso violinista, perdendo di fatto in originalità. Tra i temi noti trattati dal duo, quel Sno’ Peas del pianista reso celebre da Bill Evans e Toots Thielemans in Affinity e una discutibile interpretazione dell’ immortale ellingtoniano Come Sunday, inopinatamente svuotato del suo profondo significato spirituale tipicamente africano-americano. Un’occasione fondamentalmente persa per farsi meglio conoscere e apprezzare, soprattutto per il capace violinista del Kentucky.